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DIPLOMAZIA

Pakistan, l'alleato scomodo che gli Usa non pagano più

Ieri, il segretario di Stato Usa Mike Pompeo, si è recato in visita ufficiale in Pakistan, in un momento di tensione al calor bianco con il tradizionale alleato asiatico. Proprio tre giorni prima della visita, infatti, l’amministrazione Trump ha annunciato un taglio di 300 milioni di dollari in aiuti militari. E' l'ultima puntata di una alleanza difficilissima.

Esteri 06_09_2018
Pakistan, aiuti dall'America

Ieri, il segretario di Stato Usa Mike Pompeo, si è recato in visita ufficiale in Pakistan, in un momento di tensione al calor bianco con il tradizionale alleato asiatico. Proprio tre giorni prima della visita, infatti, l’amministrazione Trump ha annunciato un taglio di 300 milioni di dollari in aiuti militari, per fare pressione su Islamabad affinché, a sua volta, convinca i Talebani a scendere a patti.

Sullo sfondo della crisi diplomatica fra Usa e Pakistan c’è chiaramente il conflitto senza fine dell’Afghanistan. Proprio ieri, un sottufficiale statunitense, il sergente Timothy Bolyard è morto a seguito delle ferite riportate in un agguato avvenuto lunedì scorso. E’ stato assassinato da un poliziotto afgano, un terrorista infiltrato nell’esercito regolare. Ed è il 102mo caso di questo tipo: militari americani letteralmente pugnalati alle spalle dagli afgani che dovrebbero assistere. Contemporaneamente, due attentatori suicidi si facevano saltare in un’arena di lotta libera, in un’area a maggioranza sciita della capitale Kabul: almeno 20 le vittime, secondo un bilancio ancora provvisorio. Il 2018 non è ancora finito, ma potrebbe risultare l’anno terribile del lungo conflitto afgano. All’inizio di gennaio i rapporti dell’intelligence stimavano che addirittura il 70% del territorio fosse minacciato dai Talebani. Fallito un primo tentativo di negoziato, l’offensiva terroristica del movimento armato islamico è ripartita nell’estate con perdite gravissime di civili e militari. In questo contesto, Trump ha annunciato il taglio degli aiuti militari al Pakistan, accusato di non fare abbastanza contro i Talebani. E di non riuscire (o di non volerci riuscire) a persuaderli a trattare.

La visita di Mike Pompeo a Islamabad è stata osteggiata dal nuovo governo di Imran Khan. Pompeo, in viaggio per la capitale dello Stato asiatico ha dichiarato, giusto per gettare acqua sul fuoco delle polemiche che: “Noi abbiamo lavorato a stretto contatto con il Pakistan, quando ero direttore della Cia. Le nostre squadre hanno lavorato assieme a lungo (…) Ci sono problemi fra le nostre due nazioni, è chiaro, ma speriamo che la nuova leadership possa trovare con noi un terreno comune su cui lavorare su alcune delle sfide in comune”. Durante le sue cinque ore di visita e di colloqui con il nuovo governo, comunque, Pompeo non ha ancora concluso nulla di concreto, dichiarando che ci sono ancora molte cose da fare per appianare le divergenze. “Occorreranno molte altre discussioni”, ha dichiarato il segretario di Stato. Il suo omologo pakistano, il ministro degli Esteri Qureshi, si dice ottimista sul raggiungimento di una nuova distensione con l’alleato, ma avverte, in una logica di scambio puro, che se gli Usa vogliono che il Pakistan allenti la tensione in Afghanistan, devono anche aiutare il Pakistan ad allentare le tensioni con l’India. Oggi Pompeo è giustappunto in visita in India. Mentre Usa e India sono sempre più vicini, fra India e Pakistan i rapporti sono sempre tesi e il nuovo governo non promette alcun disgelo.

Già da molto tempo prima di Trump, gli Usa accusano il Pakistan di aiutare segretamente i Talebani, tramite il loro potente servizio segreto militare, l’Isi. L’accusa era stata lanciata anche da Barack Obama, nel corso della sua campagna elettorale del 2008, tanto da provocare una protesta pakistana contro il futuro capo di Stato. Trump ha rafforzato ulteriormente la sua retorica anti-pakistana, non solo in campagna elettorale, ma anche nei primi due anni di amministrazione. All’inizio dell’anno aveva sospeso gli aiuti sulla sicurezza, per fare vedere che la sua non era solo retorica. E questa settimana è arrivato, puntuale, l’annuncio del taglio di 300 milioni di dollari in aiuti militari. Il Pakistan risponde, dalle colonne dei suoi commentatori, che quelle statunitensi sono solo calunnie, che il paese viene usato come capro espiatorio per l’andamento tragico del conflitto in Afghanistan, dopo 17 anni di guerra senza vittoria. La piazza protesta contro Trump e contro gli Usa. Ma non aveva neppure bisogno di essere stimolata da una crisi diplomatica: quella pakistana è una delle società più anti-americane al mondo, stando ai sondaggi. E Imran Khan è, in un certo senso, il prodotto di questo anti-americanismo: in tempi non sospetti aveva giustificato i Talebani, quasi elogiandoli per la loro “guerra santa” contro gli Usa in Afghanistan. Una volta eletto premier ha moderato i toni. Ma non troppo i contenuti. Chiede un “rapporto più equilibrato e meno unilaterale” con gli Stati Uniti e un ritiro graduale delle forze statunitensi (attualmente circa 14mila uomini) dall’Afghanistan.

In generale, è solo l’Afghanistan che per ora tiene legati i due alleati. Una giustificazione strategica per uno stretto legame fra Islamabad e Washington non esiste più da almeno tre decenni. L’alleanza è nata in funzione anti-sovietica e anti-indiana, quando c’era la guerra fredda anche in Asia e l’India, ufficialmente “non allineata” pendeva nel campo sovietico, ricevendone armi e aiuti. Il Pakistan è stato da subito, però, un alleato ostico. Basti pensare che gli Stati Uniti hanno dovuto chiudere un occhio sul genocidio commesso dall’esercito pakistano nell’allora Pakistan Orientale (oggi Bangladesh): un milione di morti in appena otto mesi e mezzo, nel 1971. Rimasto un fronte secondario della guerra fredda fino al 1979, con l’invasione sovietica dell’Afghanistan, il Pakistan è diventato prima linea. Gli americani hanno fatto affluire gli aiuti militari ai mujaheddin afgani tramite le valli delle aree tribali pakistane. Finita la guerra fredda, l’alleanza con il Pakistan è andata avanti per inerzia. Fidandosi dei tradizionali alleati della regione, il presidente Bill Clinton, secondo la denuncia dell’ex leader mujaheddin Massoud (assassinato nel 2001, poco prima dell’attacco alle Torri Gemelle), ha avallato l’insediamento al potere dei Talebani, sostenuti dal Pakistan, già nel 1994. Il generale Musharraf, al potere dal 1999, ha dovuto disconoscere i Talebani solo dopo l’attacco dell’11 settembre 2001. Ma è sempre stato forte il sospetto che i suoi servizi segreti continuassero a rifornirli di armi e di dar loro un rifugio sicuro in territorio pakistano, anche in tutti gli anni successivi. Il culmine della sfiducia reciproca fra Usa e Pakistan è il 2 maggio 2011, l’uccisione di Osama bin Laden da parte delle forze speciali statunitensi ad Abbottabad. Il terrorista più ricercato del mondo viveva in un compound non lontano dalla capitale pakistana e a due passi dall’accademia della polizia, in un quartiere abitato da molti ufficiali in pensione. Dal canto suo, il Pakistan, sia a livello popolare che governativo, non ha mai digerito un’incursione militare americana nel suo territorio, non autorizzata dal governo.

A parte la guerra in Afghanistan, che obbliga gli americani a contare sul Pakistan quale unica possibile base logistica, non ci sono più altre ragioni per mantenere un alleato così difficile. La guerra fredda non c’è più, l’India è in rapporti sempre migliori con gli Usa e, nelle nuove rivalità internazionali, il Pakistan pende sempre maggiormente dalla parte della Cina. Quindi… C’è però un altro fattore che impone prudenza a Washington: la paura dell’atomica. Il Pakistan, anche se si tende a dimenticarlo, è una potenza nucleare, così come l’India. Uno dei maggiori rischi di conflitto atomico nel mondo è proprio quello fra India e Pakistan.