Paghiamo noi i danni dell'Intifada degli studenti
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Dopo 39 giorni termina l'occupazione del palazzo universitario di Torino da parte degli studenti pro Palestina che si trasferiscono al Politecnico. Lasciano un edificio inagibile, da ritinteggiare e con diverse maniglie rotte. E i prof fiancheggiatori minimizzano: «Danni per poche decine di migliaia di euro, per l'Università non sarà un problema». Tradotto: paghiamo noi.
Palazzo Nuovo, sede dei corsi di laurea umanistici dell’Università di Torino, è stato occupato per 39 giorni dagli studenti che pretendono dagli atenei torinesi che interrompano ogni rapporto scientifico e didattico con quelli israeliani. L’occupazione è terminata il 19 giugno quando, bontà loro, gli studenti hanno deciso di trasferirsi al Politecnico tuttora occupato.
«Oggi, 39° giorno di occupazione e di blocco della didattica a Palazzo Nuovo, l’Intifada dalle università si riversa per le strade di Torino», hanno gridato con i megafoni. Poi dal tetto dell’edificio hanno esploso dei fuochi d’artificio e, al grido “Intifada fino alla vittoria”, se ne sono andati lasciando sulla facciata di Palazzo Nuovo uno striscione con su scritto “to be continued”. Erano in tutto circa 400 persone, secondo i mass media che giustamente hanno scritto “persone” e non “studenti” dal momento che all’occupazione, ai cortei e alle altre iniziative “pro Palestina” delle scorse settimane ha partecipato anche gente che con l’università non ha niente a che fare, come ad esempio i militanti dei centri sociali torinesi, in prima linea quelli di Askatasuna, il centro sociale che il 23 aprile, forte della sua esperienza in fatto di manifestazioni violente, ha coordinato i tentativi degli studenti dei collettivi pro Palestina di entrare al castello del Valentino, una delle sedi del Politecnico dove in quel momento tre ministri, Tajani, Bernini e Lollobrigida, stavano partecipando un convegno.
Raggiunta la vicina via Po, dove ha sede il Rettorato, il corteo ne ha imbrattato con scritte e spray neri i portici che solo due giorni prima i commercianti della via avevano ripulito da graffiti e scritte ricordo di precedenti manifestazioni di protesta dell’Intifada. Sui muri hanno anche affisso dei volantini con la scritta: “Intifada ovunque, non finisce qua”.
In un comunicato gli studenti dell’Intifada hanno spiegato che intendono infatti praticare nuove forme di mobilitazione, fieri di essere riusciti a respingere i tentativi di dividerli: «Sappiamo che una mobilitazione così grande e persistente non possa essere perfetta in ogni suo dettaglio, ma crediamo profondamente nella lotta che stiamo portando avanti e nei metodi che proponiamo, sui quali da oggi potremo riflettere e creare una analisi». Sorvolando sull’italiano che lascia a desiderare, quel che salta agli occhi leggendo il comunicato è la presunzione delirante di chi l’ha scritto. Si parla di «una manifestazione così grande» quando vi hanno partecipato qualche centinaio di studenti su un totale di oltre 120mila iscritti all’Università e al Politecnico di Torino: molto meno dell’1%, in pratica una percentuale irrilevante.
Colpisce inoltre la fiera difesa dei metodi adottati: «Crediamo profondamente nei metodi che proponiamo», vale a dire, impedire l’attività didattica, imbrattare muri, intralciare viabilità e attività commerciali, danneggiare edifici pubblici.
Per parte loro i dirigenti dell’ateneo torinese si vantano di aver adottato la “linea del dialogo”, una linea «ferma e aperta al confronto». A dirlo è il rettore Stefano Geuna. Ma l’unica linea ferma è stato il rifiuto di interrompere i rapporti con gli atenei israeliani, e neanche tanto fermamente perché due dipartimenti, quello di Culture, politica e società e quello di Psicologia hanno votato la rescissione dei rapporti di collaborazione con le università israeliane in ambiti direttamente o indirettamente collegati al comparto bellico e il rettore stesso promette «un’analisi ancora più attenta dei progetti per verificare che non ci siano progetti a rischio e in quel caso certamente ci saranno azioni di interruzione». Per il resto gli studenti dell’Intifada hanno fatto tutto quel che pareva loro, indisturbati, quando, dove e per tutto il tempo che hanno voluto.
Il rettore se non altro riconosce che sono stati arrecati danni ingenti a Palazzo Nuovo, come d’altra parte mostrano le poche immagini finora pubblicate. Ma c’è chi minimizza anche su questo aspetto, prendendo le parti degli studenti dell’Intifada. Un professore ordinario, Giuseppe Martino di Giuda, Vice-Rettore per la digitalizzazione, programmazione, sviluppo e valorizzazione del patrimonio edilizio dell’ateneo, intervistato dal quotidiano La Stampa, raccomanda di «mettere da parte l’ideologia»: «A Palazzo Nuovo non sono passati gli Unni – dice – non c’è nessuna devastazione fisica dell’edificio, bisogna ripristinare il luogo senza grandi interventi strutturali o altro». Sostiene che si tratta soltanto di ritinteggiare e sistemare qualche maniglia divelta. «L’enfasi di questi giorni è fuori luogo, getto acqua sul fuoco perché è un fuoco di paglia» aggiunge. Alla domanda perché allora ne è impedito l’accesso, risponde che bisogna «restituire Palazzo Nuovo con un aspetto che possa accogliere tutti e nessuno si senta offeso». Pur ammettendo che «a oggi il palazzo assomiglia a un museo di street art» esorta a evitare di «avvelenare il clima e far sembrare gli occupanti dei delinquenti seriali». «Per rendere di nuovo agibile l’edificio, conclude, basteranno qualche settimana e qualche decina di migliaia di euro: un intervento che non mette l’università in difficoltà economica».
Chi conosce le dimensioni di Palazzo Nuovo sa che, se anche si trattasse davvero solo di ritinteggiare e di sostituire qualche maniglia rotta, poche decine di migliaia di euro non sarebbero sufficienti. Questo a parte, è davvero sconfortante che un docente universitario parli con tanta leggerezza di un edificio pubblico, neanche un metro quadrato del quale dovrebbe essere usato per scopi diversi da quelli ai quali è preposto e che invece è stato lasciato per settimane in mano a persone che ne hanno fatto scempio. Ed è scandaloso che, con altrettanta leggerezza, parli di spendere decine di migliaia di euro di denaro pubblico: denaro che, come ci insegnò Margaret Thatcher, non esiste perché «esiste solo il denaro dei contribuenti». Inoltre, sempre la Thatcher ha insegnato, un ateneo, se è statale, «ha come risorsa di denaro solamente il denaro che la gente guadagna». Nelle prossime settimane una quantità significativa di quel denaro verrà spesa per rimediare ai danni inflitti all’ateneo di Torino, per renderlo agibile… fino alla prossima “battaglia” che un pugno di studenti deciderà di condurre.