Padre Justyn: "Ucraina, non è guerra di religione"
“La Chiesa ha il duro compito di mettere la luce della fede in una situazione in cui l'uomo diventa facilmente una bestia". Parla padre Justyn Voyko, prete in prima linea nel conflitto ucraino. Un lungo conflitto che non è una guerra di religione, fra ortodossi russi e ucraini, o fra ortodossi e cattolici. Piuttosto la libertà di religione, in Crimea soprattutto, rischia di essere soppressa.
“Non ci sono atei in guerra” - scherza Padre Justyn - “Non sono io a dirlo, me lo dicono sempre i soldati”. E in guerra, la presenza di Dio è forte più che mai, perchè “dove si combatte si sente la sofferenza di Gesù crocifisso. È lui a darci forza e a sostenerci in questa Via Crucis”.
Padre Justyn Voyko è in prima linea da ormai un anno e mezzo, da quando è iniziata l'Operazione Antiterrorismo nell'Ucraina orientale. Fa avanti e indietro dalla sua parrocchia di Leopoli, dove svolge la missione pastorale e organizza pellegrinaggi, alla linea del fronte in Donbass, dove offre sostegno spirituale ai soldati e partecipa a programmi di negoziazione di ostaggi. Finora ha raccolto migliaia di euro e dollari con cui ha comprato medicine, cibo, vestiti, automobili e materiale parabellico che ha sempre consegnato personalmente ai militari dello scalcinato esercito ucraino. “La situazione logistica adesso è un po' migliorata, ma quando sono partiti i nostri ragazzi avevano solo la divisa addosso e il kalashnikov in spalla. In un anno, grazie ai volontari di tutto il mondo gli abbiamo ridato dignità. Quello che ha fatto la nostra gente è un vero miracolo”. Gli chiediamo cosa ne pensa di chi si oppone all'intervento della Chiesa nel supporto logistico ai militari. Ci risponde con sguardo sereno e risoluto: “Conosco la polemica. Abbiamo avuto problemi anche in Italia, a Firenze, dove padre Volodymir Voloshyn organizzava collette per comprare termovisori (Ndr. Strumenti capaci di individuare persone in condizioni di buio attraverso il rilevamento del calore). Non c'è nulla in aperto contrasto con il magistero della Chiesa. Anzitutto raccogliamo denaro solo per equipaggiamento militare di strategia difensiva, mai offensiva. In guerra difendersi è un diritto e salvare vite umane è un dovere: senza i visori notturni i nostri soldati sono bersagli, vittime cieche di combattimenti che avvengono soprattutto di notte. Poi la Chiesa ha il dovere di accompagnare la sua comunità: noi siamo con la gente, con quella gente che ha parenti che combattono al fronte, che è straziata dalle pessime condizioni in cui versano i propri figli, mariti, amici e familiari. Non possiamo dissociarci da loro, dobbiamo ascoltarli e accompagnarli in questo percorso. Dobbiamo aiutarli e aiutarci ad agire e a reagire nel migliore dei modi possibili, in una situazione tra le peggiori possibili”.
“Aiutarci?”, gli chiedo. La risolutezza scompare dal suo volto, sul quale si schiude un'espressione diversa, quasi smarrita. “La Chiesa ha il duro compito di mettere la luce della fede in una situazione in cui l'uomo diventa facilmente una bestia. Vede, la gente non era pronta a questo conflitto, ma nemmeno io lo ero. Per me è un'esperienza nuova. Non avevo mai celebrato messa in un bunker, non avevo mai svolto la pastorale con i militari, non avevo mai negoziato con un terrorista per ottenere la liberazione di un uomo. Mi ci sono trovato in mezzo, come tutti ne sono stato travolto. Ma come sacerdote ho il compito di stare accanto alla mia gente in questo momento cruciale. Le persone mi pongono tante domande, io cerco di rispondere, ma nella mia testa ce ne sono altrettante, forse di più. Insieme facciamo lo sforzo di mantenere l'umanità nella più bestiale delle situazioni umane”.
Quando gli domando cosa c'entra la religione con questa guerra in Ucraina, Padre Justyn mi spiega che secondo lui non si tratta di una guerra di religione, come alcuni vorrebbero far credere: “La propaganda russa strumentalizza la fede parlando di conflitto tra Patriarcato di Mosca e Patriarcato di Kiev, tra Patriarcato di Mosca e Chiesa Cattolica. Ma non si tratta di questo e lo dimostrano tantissimi casi di collaborazione tra sacerdoti ortodossi russi e quelli di altre confessioni. Vero è che alcuni rappresentanti del clero ortodosso moscovita appoggiano le repubbliche autoproclamate di Donetsk e Lughansk, ma non sono moltissimi, sono quelli che non si sono mai mossi dall'Ucraina orientale, anche loro vittime della propaganda del Cremlino. Questo conflitto non è una guerra di religione, ma è enormemente lesivo della libertà religiosa. Nel Donbass la situazione è incerta e confusa. Molti sacerdoti hanno trascorso settimane nelle prigioni di Donetsk, sono stati torturati e interrogati. Una volta rilasciati sono tornati alla loro missione pastorale, ma sono tenuti costantemente sotto controllo dai separatisti e dai servizi segreti russi. Molti cattolici hanno lasciato i territori occupati dell'Ucraina e le chiese si sono svuotate. Quelli che sono rimasti, si stringono nelle loro comunità parrocchiali e frequentano la chiesa quasi ogni giorno, costretti a comunicare in maniera ridottissima, poche parole e molti sguardi. Nessuno sa per quanto tempo le chiese rimarranno aperte. La situazione in Crimea è ancora più grave: i nostri sacerdoti operano completamente in clandestinità e alcuni conventi sono già stati chiusi”.
La Chiesa Greco-Cattolica non ha uno status giuridico nell’ordinamento russo e non ha quindi i requisiti per essere registrata in Crimea in base alla nuova legge sui culti, che nella seconda metà degli anni Novanta ha reintrodotto in Russia l’obbligo della registrazione per le organizzazioni religiose straniere. “Già molte richieste di registrazione sono state respinte, le ripresenteranno, ma se non verranno accettate le chiese saranno espropriate”. Putin durante il suo viaggio di agosto nella penisola ha ribadito ai rappresentanti della comunità tatara che non sarà concesso nessun riconoscimento delle minoranze, né a loro né ad altri. Così, oltre che sulla comunità tatara, anche su quella cattolica torna a incombere un antico spettro, quello che nel 1946 la costrinse al ricongiungimento forzato sotto il Patriarcato ortodosso di Mosca. Solo dopo dure persecuzioni fu reintegrata nei propri diritti nel 1989. L'Arcivescovo Maggiore di Kiev-Halyic, Monsignor Sviatoslav Shevchuk, facendo appello a una maggior sensibilità della comunità internazionale per il problema, ha dichiarato: “E’ paradossale che dopo avere appena celebrato il venticinquesimo anniversario della nostra legalizzazione nell’era post-sovietica, presto ci sarà negato il diritto di svolgere legalmente le nostre attività”.
Secondo Padre Justyn, la soluzione di questo conflitto richiederà molto tempo e ancora molto impegno: “La tregua delle armi è lontana, e lo è ancor di più la necessaria riconquista del territorio. Ma la sfida più ardua è quella dei cuori, quella contro la propaganda che ha instillato l'odio nella gente e tra la gente. Non sarà facile tornare a credere di essere tutti fratelli. Questo è il requisito indispensabile per ricostruire l'Ucraina. Questo è l'obiettivo per cui, finché Dio mi darà forza, combatterò”.