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RICORDO

Ovidio Capitani R.I.P.

Note a margine della scomparsa di un grande medioevista italiano.

Cultura 24_03_2012
Ovidio Capitani (1930-2012)
Il 17 marzo è scomparso a Bologna lo storico Ovidio Capitani, nato il 1° gennaio 1930 a Il Cairo.

Tra i maggiori specialisti italiani di storia del Medioevo
, maestro riconosciuto di generazioni intere di studiosi, dal 1967 Capitani ha insegnato nell’Università di Bologna. Autore di diverse importanti monografie, così come di opere signorilmente divulgative, ha pure collaborato alla redazione di voci per il Dizionario biografico degli italiani, per l’Enciclopedia dei Papi e per l’Enciclopedia Fridericiana, curate ed edite a Roma dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani. Il suo nome è del resto indissolubilmente legato a una delle maggiori istituzioni italiane d’indagine storica, la Fondazione Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo di Spoleto, di cui Capitani fu presidente, ovvero uno dei più rinomati e prestigiosi ambienti di ricerca specialistica, noto e apprezzato anche all’estero, il quale è da decenni un vero faro di conoscenza, di studio e di vera cultura. Capitani è stato inoltre presidente del Centro di studi sulla spiritualità medievale di Todi, consigliere dell'Istituto Storico Italiano per il Medioevo e socio dell’Accademia dei Lincei.

Con lui scompare indubbiamente una delle punte di diamante
dell’erudizione storica di cui ha brillato il nostro Paese. E la cosa non è una mera faccenda per addetti ai lavori.

Lo storico e scrittore svizzero Gonzague de Reynold
(1880-1970) - cattolico felicemente intransigente - ha avuto infatti occasione di fare propri, per iscritto, alcuni pensieri svolti dal connazionale Johannes von Muller zu Sylvelden (1752-1809); per esempio le sue riflessioni sul senso e sull’"utilizzabilità" della storia, che De Reynold sintetizza in questi termini: «Considero la storia come un deposito di conoscenze ad uso della politica».

Certamente in sintonia con questa impostazione, il medievista cattolico italiano Marco Tangheroni (1946-2004) ha ulteriormente avuto modo - in tempi più recenti - di riflettere con raffinatezza sul medesimo argomento, esplicitamente ricordando parole del suo maestro riconosciuto, lo storico Cinzio Violante (1921-2001), il quale - spiega Tangheroni - ha sempre anzitutto e soprattutto avuto a cuore l’obiettivo «di legare problemi esistenziali e professione di storico»; e questo «tanto da ritenere che la storiografia fosse ormai in crisi proprio per aver rinunciato a questo nesso».

Ebbene, secondo Tangheroni, tutta l’opera di Capitani è riconducibile alla medesima esigenza. Capitani svolse infatti ininterrottamente considerazioni - «pure pessimistiche» - sul "mestiere dello storico" che in finis si risolvono in una semantizzazione della storia in «storia della coscienza riflessa».

Tangheroni, Violante, Capitani: un comune sentire la storia che costituisce uno dei tratti più nobili di uno straordinario capitolo della storiografia italiana - che è l’arte di studiare e di raccontare la storia chiedendo alle cose il "perché", oltre che il "come" - pur nel permanere tra loro di grandi - e magari anche di profonde - differenze.

Perché, nonostante le ideologie e il loro tramonto, le "meccanica della rivoluzione" (di cui parlava il sociologo cattolico francese Augustin Cochin, 1876-1916) e la «pigrizia congenita» della cultura (denunciata dallo storico cattolico nicaraguense Julio César Ycaza Tigerino, 1919-2001), la storia non è né mai è stata, non può essere né mai sarà mera propaganda rivolta al passato (come volevano i bolscevichi montati sulle barricate dell’"Ottobre" Rosso).

Essa è invece sempre la contemplazione attiva ed éngagé del "senso forte" del "tempo breve" (il medioevo" che sta tra l'inizio e la fine sia di tutto sia del nostro transito...) che all’uomo è dato in concessione per scoprire, intendere e quindi lasciarsi ammaestrare da ciò che, oltre il tempo, il tempo lo attraverso e lo signoreggia. Il "mestiere dello storico" è infatti anzitutto e soprattutto un gesto d’amore verso l’esistente e il suo significato, che inizia sempre con un atto di realismo - l’equivalente professionale e laico di una genuflessione devota -, che procede poi secondo la classica formula dell’ablativo di modo latino «studio et amore» - ancora l’amore… - e che si conclude infine con un «tutto è compiuto» che sorpassa ogni più sottile capacità umana, non per mutarsi in scepsi arida ma per affidare ad Altro il compimento ultimo delle cose.

Per meno di questo, evitiamo pure di studiare la storia, ché la cosa dà solo il mal di capo.