Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Giorgio a cura di Ermes Dovico
HOLLYWOOD

Oscar solo ai film attenti alle minoranze. Tranne gli uiguri

Così Hollywood esce allo scoperto. Dal 2024 diventerà una regola fissa: se si vuole essere candidati agli Oscar si deve dare spazio alle minoranze, prima ancora che badare alla qualità del film. L’industria cinematografica più ricca del mondo, però, è veramente attenta alle minoranze? No, a giudicare da come si sta comportando la Disney in Cina, ignorando i diritti degli uiguri.

Cultura 11_09_2020
Oscar

Così Hollywood esce allo scoperto. Dal 2024 diventerà una regola fissa: se si vuole essere candidati agli Oscar si deve dare spazio alle minoranze, prima ancora che badare alla qualità del film. L’industria cinematografica più ricca del mondo, però, è veramente attenta alle minoranze?

La campagna per l’inclusione è iniziata nel 2015, con lo slogan “Oscars So White!” (quanto sono bianchi gli Oscar!), divenuto anche un hashtag di successo su Twitter, #OscarsSoWhite. Come per le successive campagne di Mee Too e poi di Black Lives Matter, anche la campagna contro la “discriminazione” nell’assegnazione degli Oscar si era diffusa a tutti i livelli e non aderirvi, da parte di attori, registi, aziende, avrebbe comportato lo stigma del razzismo. Oltre alla campagna più informale, l’anno stesso la Commissione per l’eguaglianza di opportunità nelle assunzioni aveva lanciato una sua indagine sui principali produttori per verificare se stessero effettivamente discriminando registe donne e attori appartenenti a minoranze etniche.

Fatto sta che, dal 2015 al 2019, secondo un’inchiesta condotta dal Wall Street Journal l’anno scorso, la presenza di donne, attori non bianchi, gay e in generale membri delle comunità Lgbt, è sensibilmente aumentata in tutti i film prodotti a Hollywood. La presenza delle donne nei ruoli da protagonista è arrivata al 61% di tutti i film, quando era il 42% nel 2015. Il numero di film diretti da registe donne, nello stesso lasso di tempo, è raddoppiato, da 8 a 16, pari al 20% dei film prodotti (dall’8% nel 2015). Dei 70 film di grande distribuzione prodotti nel 2019, quelli con attori latino americani o neri sono il 51%, mentre erano il 22% nel 2015. Hollywood, il “bastione della cultura progressista”, preoccupata di essere accusata di razzismo, si era già adeguata alla nuova politica multirazziale. La Diseny promette progetti più inclusivi, fra cui anche una Sirenetta afro-americana. 

Nel prossimo futuro, però, queste regole saranno codificate, nero su bianco. Per potersi qualificare agli Oscar, i prossimi film dovranno rispettare almeno due regole fondamentali fra: un membro di una minoranza come attore protagonista, almeno il 30% di attori secondari reclutati fra le minoranze, una sceneggiatura che riguardi una minoranza. Anche nel personale non artistico, il reclutamento della troupe deve rispettare le quote nere, rosa e arcobaleno. Idem dicasi per il personale commerciale che si occupa di marketing, distribuzione e pubblicità.

Le nuove regole stanno provocando comprensibili polemiche, anche da parte di registi e attori non sospetti di conservatorismo o tantomeno di razzismo. Così tanta attenzione per l’inclusione delle minoranze etniche, sessuali e di genere ruba spazio e attenzione alla qualità artistica del film. L’attrice Kristie Alley l’ha definita una legge “orwelliana”, che sarà “una disgrazia per gli artisti di ogni parte del mondo”. Per James Woods è semplicemente “follia”. Dean Cain (il Superman televisivo) si chiede: “cosa vorrà dire, adesso, giudicare con questo criterio il miglior film?” Sono però mosche bianche e rischiano loro stessi di non passarla liscia. Basti vedere che, subito dopo aver pubblicato il suo tweet di critica, Kristie Alley ha dovuto cancellarlo e postare su Twitter una raffica di commenti in cui spiega quanto sia forte e genuino il suo anti-razzismo.

Ma, a Hollywood, ci sono alcune minoranze che contano meno di altre, a quanto pare. Basti vedere la polemica che sta iniziando a montare su Mulan, ultimo prodotto della Disney, remake dal vivo del cartone animato del 1998. È girato in Cina, in particolare nello Xinjiang, una scelta che denota quantomeno una sensibilità molto scarsa, considerando la deportazione di milioni di cittadini appartenenti alle minoranze uigura e kazaka (da 1 a 3 milioni, a seconda delle fonti, ma comunque milioni) proprio in quella regione. Non solo, ma nei titoli di coda, la Disney ringrazia specificamente otto enti governativi del Partito Comunista Cinese nella Regione autonoma dello Xinjiang, fra cui anche l’Ufficio per la sicurezza pubblica di Turpan, l’ente locale responsabile della gestione di diversi campi di rieducazione segnalati (e documentati) in quell’area. Se si tratta di minoranze perseguitate dal regime comunista cinese, dunque, non si applicano le nuove regole sull’inclusione.