Oscar. Siamo fieri di parlar male di noi stessi!
Alla grande festa del cinema americano, è concesso l'onore di un premio a un film italiano. Ne dobbiamo essere orgogliosi? Per vincere dobbiamo vederci con occhi americani. Dunque dobbiamo mostrare la solita Italietta da quattro soldi.
A me, come a tutti i cittadini italiani medi, il fatto che il regista Sorrentino abbia preso l’Oscar non porta in tasca nulla. Non aumenta il mio benessere nemmeno se vince la nazionale di calcio, o uno sciatore italiano d’anagrafe, ma dal nome invariabilmente tedesco, strappa un trofeo. Noi italiani siamo bravissimi a emigrare (e solo all’estero un italiano capace può emergere) o a eccellere in cose che l’italiano medio può vedere solo col binocolo: l’alta moda e la Ferrari. Gli stereotipi italici nella mente degli stranieri – rassegniamoci - sono questi: pizza & mafia. E ve lo dice uno che ha pubblicato un Doveroso elogio degli italiani (Rizzoli, 2001), libro di cui più invecchia e più si pente.
E veniamo agli Oscar. Mentre facciamo notte per le strade esibendo bandiere dalle auto e strombazzando come matti ubriachi non solo di gioia per il premio vinto, vediamo di ricordarci che l’Oscar è un premio tutto americano che va a film americani. Là l’industria cinematografica non campa di sovvenzioni. Là ogni milione di dollari (privati) speso per un film ne porta dieci dall’estero. Gli americani, staccatisi dall’Inghilterra nel 1776 per questioni di soldi, sono maestri universali nel farli, i soldi, e non per niente gli Usa sono stati definiti «una società per azioni armata». Anche la parola «Oscar» reca accanto il simbolino «c». Sta per «copyright» e significa che se la usi impropriamente finisci in tribunale e paghi. Dunque, Festa del Cinema, sì, ma americano.
Ora, poiché a qualcuno non è parso giusto che la vastissima periferia dell’impero stia solo a guardare gli scintillii di Los Angeles, ecco una briciola: un (1) film «straniero» può aggiudicarsi un cascame della Notte delle Stelle. Qualche decennio fa alla Rai venne in mente il solito musicarello tipo «Canzonissima», che agli italiani piaceva tanto, ed escogitò la gara di canzonette «Napoli contro tutti», nella quale vinceva sempre Napoli. Ebbene, l’Oscar è «Hollywood contro tutti» e ai film americani vanno premi alla regia, alla sceneggiatura, al plot, al miglior attore, al migliore non protagonista, alla migliore musica, agli effetti speciali, alla canzone, ai costumi, alle scenografie… ho dimenticato qualcosa? Al resto del mondo una sola statuetta, e basta. Corretto: ognuno a casa sua fa quel che gli pare, la giuria è americana, no?
Ma agli americani interessa solo vedere al cinema quanto sono superiori loro e quanto inferiori gli altri. Così, per esempio, l’Oscar di miglior film straniero è andato a un film indiano che mostrava quanto fa schifo l’India o a un film tedesco che mostrava quanto faceva schifo la Ddr. A mostrare quanto faceva pena l’Italia pensavano Fellini o De Sica, rispettivamente con La dolce vita e La ciociara. In tempi più vicini a noi i registi italiani si sono fatti furbi e hanno capito che, per essere presi in considerazione dagli americani, dovevano mettersi nella loro testa. Nella quale c’è l’Italietta neorealista (Nuovo Cinema Paradiso), l’Italietta di militari imbelli e buoni solo se antifascisti (Mediterraneo), la sempreverde Shoà (La vita è bella). Dopo quest’ultimo, Benigni si chiese cos’altro potesse piacere agli americani, visto che alla mafia pensavano già Scorsese e Coppola e sulla pizza c’era poco da scervellarsi. L’opera lirica? Non è roba da film. I classici, allora. Ma l’unico classico italiano noto agli americani era Pinocchio, tant’è che ci avevano già messo mano Walt Disney e, con ben altri mezzi e inventiva, Spielberg (A.I. Intelligenza Artificiale). Infatti, il Pinocchio di Benigni fu un flop, pure trattato con sufficienza dalla stampa americana (cito: «…pensavamo che Pinocchio fosse un bambino, non un quarantenne stempiato…»). Benigni, com’è noto, si dirottò su Dante, del quale, però, gli americani nulla sanno e, anche a volerci fare un film, i mezzi adeguati li hanno solo loro.
Perciò non rimaneva che tornare ai vecchi santi e mostrare agli americani la solita Italietta che fa la solita pena, anche se aggiornata. Così, La grande bellezza è quella di Roma, o meglio del suo passato monumentale, popolata purtroppo da italiani che stanno ai greci di oggi come questi stanno all’Atene di Pericle. Vabbe’, direte voi, un Oscar è sempre meglio di niente. Concordiamo e nulla intendiamo togliere al film di Sorrentino che, oltretutto, ha fatto incetta di altri premi internazionali. Ma non ci si parli, per cortesia, di orgoglio nazionale. Gli americani, per esempio, hanno, come romanzi «nazionali», Via col vento e Moby Dick : con l’uno hanno pacificato la loro guerra civile, rendendo il doveroso omaggio ai vinti e ricordando ai posteri che erano americani anche loro; con l’altro, hanno espresso un tema realmente cosmico, la lotta del Bene contro il Male. Il nostro romanzo «nazionale» è, invece, I promessi sposi, storia di poveracci che riescono a cavarsela solo grazie alla Provvidenza, ed è tutto dire. E il romanzo sulla nostra, di guerra civile, è Il gattopardo, rassegnato omaggio al trasformismo, Franza o Spagna purché se magna. La nostra seconda guerra civile (perché questo sventurato Paese ne ha avute ben due) non si può nemmeno romanzare, sennò finisce a scontri di piazza.
Il film di Sorrentino in effetti dovrebbe essere mostrato non tanto agli americani, i quali sono già informati dai turisti, bensì nelle scuole italiane e con questo sottotitolo: «Grande passato, penoso presente, nessun futuro. Guaglio’, jatevènne». Dalla Roma di Augusto a quella di Ignazio Marino. Già: basta spostarsi nella confinante Svizzera per trovare un popolo che sa almeno scegliersi gli amministratori. Noi non sappiamo fare nemmeno quello e, a ogni tornata elettorale, ci ritroviamo invariabilmente peggio di prima. L’ultimo politico italiano con gli attributi è stato Togliatti. Ed è tutto dire.