Opporsi all'aborto Per l'Onu è tortura
Presentato al Consiglio dei diritti umani dell'Onu un documento che allarga il concetto di tortura, estendendolo anche all'opposizione all'aborto, alla fecondazione assistita, al rifiuto dei matrimoni gay. Duro attacco all'obiezione di coscienza.
Si intitola «Report del relatore speciale sulla tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti». Il relatore speciale, titolo che l’Onu attribuisce a personalità operanti per conto delle stesse Nazioni Unite in specifici ambiti, risponde al nome di Juan E. Méndez e il testo fa parte dei documenti presentati durante la ventiduesima sessione del Consiglio dei diritti umani dell’Onu.
Sin dall’introduzione il report potrebbe apparire condivisibile poiché animato da nobili intenti, tra cui in particolare quello di individuare e stigmatizzare pratiche in ambito sanitario che possano configurarsi come atti lesivi della dignità umana. E’ proprio il concetto di tortura ad essere ampliato nell’ambito del report, estendendone l’applicazione dai classici campi, come quello della detenzione e quello militare, ad uno meno usuale: tortura, si afferma ad esempio, è anche un intervento medico invasivo effettuato senza il consenso del paziente. Ma, come a volte (forse troppo spesso) accade quando si tratta di documenti ufficiali di istituzioni sovranazionali, è nei dettagli che si nasconde l’inganno. Si celano tra le righe, più o meno esplicitamente, contenuti completamente in contrasto con un’antropologia e una politica ispirate ai principi non negoziabili. Il tutto inserito in un contesto che, come detto, a prima vista potrebbe incontrare il favore di chiunque.
Il report in questione è un fulgido esempio di questa strategia.
Nella sezione B del testo, dedicata al cosiddetti «diritti riproduttivi», ecco cosa si legge al punto 46: «Enti internazionali e regionali attivi nell’ambito dei diritti umani hanno cominciato a riconoscere che l’abuso e il maltrattamento di donne che cercano servizi di salute riproduttiva possono causare tremende e durevoli sofferenze fisiche e psicologiche». Tra gli esempi di queste violazioni, si cita «il rifiuto dei servizi sanitari legalmente disponibili, come l'aborto e la cura post-aborto». Non praticare un aborto sarebbe dunque una forma di tortura inflitta ad una donna. Si pretenderebbe forse troppo se si chiedesse che un’istituzione come l’Onu - in seno alla quale alcune lobby vorrebbero che l’interruzione volontaria di gravidanza venisse catalogata tra i diritti legati appunto alla «salute riproduttiva» (ma intanto parlano come se già fosse così) -, definisca tortura ciò che lo è veramente: proprio l’aborto, che infligge dolore e morte ad un essere umano innocente ed indifeso e lascia un vuoto incolmabile e doloroso nel grembo e nel cuore materno. Ma, almeno, sarebbe auspicabile che la logica delle cose non fosse completamente sovvertita, fino ad arrivare a definire implicitamente i migliaia di obiettori di coscienza come dei perfidi torturatori.
Al punto successivo, il 47, si cita il caso di una donna polacca alla quale fu negato un test genetico sul bimbo che portava in grembo dopo che un esame ecografico aveva evidenziato anormalità del feto. Della vicenda si occupò la Corte europea dei diritti dell’uomo, stabilendo che la donna si trovava in una «situazione di grande vulnerabilità». Nel report dell’Onu si legge che, in casi come questo, «l’accesso alle informazioni sulla salute riproduttiva è fondamentale per la capacità di una donna di esercitare l’autonomia riproduttiva e i diritti alla salute e all’integrità fisica». Non passare al setaccio la vita nascente al fine di eliminarla se non rispondente ai requisiti qualitativi attesi sarebbe dunque un’altra forma di tortura.
La sezione E del report si occupa invece dei «gruppi emarginati», tra i quali, in quarta posizione dopo sieropositivi, tossicodipendenti e prostitute, si trovano «persone lesbiche, gay, transessuali, bisessuali e intersex» (solitamente indicati con l’acronimo Lgbti). A tal proposito, tra i trattamenti classificabili come tortura, ci sarebbe la pretesa che per cambiare il proprio sesso indicato sui documenti di identità, una persona debba sottoporsi ad un intervento chirurgico. Questo tipo di intervento causa sterilità e cambiamenti irreversibili al proprio corpo, influenzando negativamente la vita familiare e riproduttiva e minando l’integrità fisica della persona. Nel documento, come esempio che dovrebbe fungere da guida per la tutela dei diritti, si cita il caso dell’Ontario, dove per cambiare il sesso sul certificato di nascita non è necessario operarsi.
Un’interpretazione perfettamente in linea con l’ideologia del gender, secondo la quale il sesso non è determinato biologicamente, ma è solo uno stato variabile autonomamente deciso dall’individuo. Perché costringere un uomo che si sente donna a cambiare sesso chirurgicamente quando si può semplicemente correggere un pezzo di carta come il certificato di nascita o la carta d’identità? Perché “torturarlo” così crudelmente? Perché impedirgli di poter tornare uomo se dovesse nuovamente sentirsi tale?
Il report si conclude con l’immancabile tentativo di obbligare gli Stati ad armonizzare le leggi a livello internazionale in senso abortista e in modo compiacente con la lobby Lgbti: si raccomanda infatti che vengano messe in atto tutte le misure necessarie – anche legislative – per prevenire tutti i tipi di tortura citati.
Non è la prima volta che il concetto di tortura viene utilizzato per questi scopi: nel 2011 la Commissione Onu contro la tortura si era occupata dell’Irlanda, dove la legge sull’aborto è molto restrittiva. Secondo la Commissione, eventuali azioni penali contro le donne che decidono di abortire si configurerebbero come violazioni della «Convenzione contro la tortura e altri trattamenti e pene crudeli, inumani o degradanti».