Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Marco a cura di Ermes Dovico
GUERRA E MEDIA

Omran, dietro la foto le nostre ciniche emozioni

Come accaduto per Aylan, anche il piccolo Omran, salvato dalle macerie di Aleppo, è diventato un simbolo grazie alla foto diffusa dalla centrale di propaganda dei ribelli. Ma qanti bambini come lui uccisi o feriti dai miliziani non hanno avuto una foto in copertina? La Nuova BQ ne parla con Toni Capuozzo. 

Esteri 20_08_2016
Il piccolo Omran

Si chiama Omran, è un bambino di appena cinque anni ed è da qualche giorno il nuovo totem mediatico della guerra in Siria. La foto del piccolo in ambulanza, coperto di polvere e insanguinato dopo un bombardamento dell’esercito regolare di Assad sta facendo il giro del mondo con il solo scopo di indignare e di orientare l’opinione pubblica sul conflitto siriano in un gioco al massacro di buoni e cattivi che produce sterilità, ma gonfia le aspettative politiche di chi con quella foto vuole dimostrare dove stanno le vittime. Invece, come ha spiegato Gian Micalessin su il Giornale quella foto è stata diffusa dall’Aleppo Media Center, la centrale di propaganda dei ribelli legati ad Al Qaeda che controllano la parte est della città. Una foto commovente, esattamente come quella del piccolo Aylan che giaceva sulle coste turche cercando l’Europa. Una foto che lacera il cuore, ma che non può da sola farci comprendere quale sia la tragedia del popolo siriano, invaso, e non il contrario, dalle truppe dello Stato Islamico.

Per un Omran e un Aylan che commuovono l’Occidente a comando, quanti sono i bambini morti per mano dei miliziani tagliagole che non hanno avuto la necessaria notorietà? La Nuova BQ lo ha chiesto ad un esperto di conflitti e media, il giornalista di Mediaset Toni Capuozzo. Testimone delle guerre degli ultimi 20 anni e giornalista che non ha l’anello al naso del politicamente corretto, Capuozzo nel tranello dell’uso strumentale che è stato fatto della foto di Omran non ci è caduto. Perché la verità è un'altra. E anche perché conosce troppo bene le tecniche di emotività mediatica per lasciarsi fregare.

Premettiamo subito le reazioni di sdegno e di dolore che sono comuni a tutti…
…appunto. La reazione di ognuno di noi di fronte a un bambino che soffre è di sdegno anche perché il nostro mondo vive di figli unici. La vita di un bambino è sempre preziosa però è inevitabile che la fotografia fissi un monumento. E i monumenti diventano intoccabili.

E’ il potere della televisione.
C’è di più. La foto ha un potere maggiore della televisione, che comunque può raccontare il prima e il dopo di un fatto. La storia è piena di immagini che diventano monumenti. Chi non ricorda quella del generale vietnamita che spara a un sospetto vietcong o quella del bambino palestinese che si ripara dai cecchini dietro il padre? La realtà era un’altra: era il padre che si faceva scudo del figlio.

Però la macchina emotiva si era già messa in moto.
Ecco perché bisogna diffidare delle nostre stesse emozioni. Restano sacrosante, ma dobbiamo ricordare che c’è sempre un uso politico delle foto.

Nella sua carriera l’ha sperimentato?
Sì. Molte volte. Ricordo un bombardamento israeliano ad una postazione missilistica di Hezbollah in un’abitazione civile. In quell’edificio c’era un bambino.

Il bambino morì e nessuno fece caso al fatto che Hezbollah si facesse scudo coi civili…
…di più. Un uomo raccolse il piccolo e lo portò in braccio all’ambulanza. Era un’immagine perfetta, degna di una pietà cinquecentesca…

Però?
Però ci si accorse che la foto scattata veniva caricata sul sito dell’agenzia di stampa più volte, si arrivò anche ad uno scarto di 80 minuti.

Che cosa era successo?
Era successo che tutti i fotografi che arrivavano sul posto volevano quel soggetto e il pover’uomo dovette rifare “la scena” del trasporto più volte.

Per accontentare i media?
Questo non toglie la pietà e la pena per la morte, ma ci deve far riflettere sull’utilizzo di quella foto atroce, considerato anche il fatto che nessuno si fermò a riflettere su chi si fa scudo dei civili durante azioni di guerra.

Ci sono bambini di serie A e di serie B nelle guerre?
Sì. Dovremmo diffidare dei simboli e così come ricordiamo nell’anniversario della Prima guerra mondiale il milite ignoto dovremmo ricordarci di tutti quei bambini che non sono diventati simboli e non hanno avuto diritto ad una fotografia.

Per un fotografo però deve essere molto difficile mantenere il filo della realtà in quel contesto.
Io ho visto decine di volte i bambolotti messi a bella posta vicino a bambini esanimi. Una foto di un bambino che sta morendo dovrebbe far tremare da sola le vene ai polsi senza che il fotografo la corredi con qualche accessorio per farci ricordare che si tratta di un’infanzia rubata.

Sta facendo un atto d’accusa alla nostra categoria di giornalisti?
Sto dicendo che noi cronisti corriamo il rischio di essere degli avvoltoi.

E torniamo all’uso politico di certe foto.
Io ho visto e documentato decine di bambini uccisi dalle milizie jhiadiste, ma nessuno si indigna per le immagini raccapriccianti dei bambini vestiti da martiri con mimetica e fucile. Scene così se ne vedono ai funerali palestinesi o nei territori dello Stato Islamico. La morte di un bambino ci colpisce perché è un qualcosa di irrimediabile, ma la costruzione di un bambino in un mostro in mimetica e fucile che spara a un prigioniero è decisamente peggiore.

E’ un problema di deontologia o c’è di più?
C’è una totale assenza di morale. Se la cronaca diventa ricerca di una facile emozione non è più tale. La tv è piena di episodi di questo tipo. La salvezza sta nel mantenere intatto lo sdegno, ma cercare di capire le ragioni e le cause, che cosa ha preceduto quell’immagine.

Adesso lo scontro in Siria è più esacerbato perché l’Isis è in difficoltà.
Sono riluttante a cantare vittoria perché nel migliore dei casi ci troveremo di fronte un’armata di zombie pronti ad uccidere e ad avvelenare ogni angolo de mondo pronti a vendicarsi del loro sogno folle fatto fallire.

C’è anche un problema in chi le riceve queste immagini? In noi come pubblico?
La tv da questo punto di vista è stata perniciosa. Noi siamo abituati a consumare frettolosamente le cose. Se ricordassi il nome di Aladyn che cosa verrebbe in mente? Era un bambino bosniaco che venne in Italia attraverso una campagna di solidarietà commovente. Però ora nessuno si ricorda più di lui perché le sue immagini dovevano raggiungere uno scopo. Oppure se pronunciassi il nome di Militza? Era una bambina di Belgrado uccisa durante un bombardamento della Nato di cui facciamo parte. Nessuno se la ricorda più. I nomi e i volti servono a catturare l’attenzione, nessuno se li ricorda più perché siamo stati abituati a consumare in fretta anche le immagini. Il tempo di un’emozione è il limite di certa informazione, che non è fatta per capire, ma tende a stupire.