L'INTERVISTA
Omogenitorialità, psicologo rompe il muro dei tabù
Intervista all'unico psicologo che ha osato esprimere in uno studio riserve sulla cosiddetta omogenitorialità. E che non ha paura di affrontare i colleghi, che spesso si basano su studi metodologicamente sbagliati, parziali e orientati ideologicamente. Perché «buona parte di queste ricerche sono governate da persone e ricercatori omosessuali».
Educazione
23_01_2017
È stato l’unico tra 19 psicologi che ha osato esprimere delle riserve sulla cosiddetta omogenitorialità, in uno studio pubblicato sul trimestrale Giornale italiano di psicologia. L’unico ad aver sottolineato che le varie ricerche citate per legittimare le famiglie con “due mamme” e “due papà” presentano problemi teorico-metodologici e non affrontano la fondamentale questione della generatività. Lui è Vittorio Cigoli, docente emerito di Psicologia clinica e autore di diverse pubblicazioni sulla psicologia della famiglia e della coppia. Il suo caso è emblematico di come un’ideologia, promossa da gruppi elitari, riesca a imporsi nella società (dalla psicologia alle altre scienze umane, dalla politica ai media, i metodi sono quasi sempre gli stessi),cercando di isolare chi la pensa diversamente e anestetizzando gradualmente l’opinione pubblica per raggiungere i propri fini. La Nuova BQ l’ha intervistato.
Professor Cigoli, può spiegarci come si è arrivati a questo blocco di opinioni a favore dell’omogenitorialità, mentre lei è stato il solo a sottolineare i rischi per i figli?
Il Giornale italiano di psicologia affronta sempre tematiche specifiche e, in questo caso, la direzione ha affidato la cura del tema dell’omogenitorialità al professor Vittorio Lingiardi, che si occupa dell’argomento da anni e si è fatto affiancare da un giovane collega, Nicola Carone. I curatori dell’articolo, di solito, contattano un certo numero di ricercatori per scrivere un contributo, mentre altri - come è successo a me - vengono contattati dalla direzione, che mi ha chiesto se ero disponibile a intervenire. Nel loro articolo a conclusione dello studio, gli autori hanno fatto la conta dei commenti per dire che questi “concordano nel ritenere che il genere e l’orientamento sessuale dei genitori non siano di per sé fattori di rischio per la stabilità e il benessere psicologico dei figli”.
Tutti i commenti concordavano, a parte il suo.
Sì, e nelle loro conclusioni gli autori hanno dedicato ben tre cartelle per replicare al mio contributo. Io penso che in questo modo abbiano strumentalizzato la rivista a scopo ideologico. Ora, io faccio ricerca da 40 anni e penso di poter esprimere un pensiero sul tema delle relazioni familiari senza che mi si tacci di pregiudizio. Mentre gli autori hanno puntato a fare una sorta di plebiscito, e penso che nemmeno gli altri colleghi siano felici di essere stati omologati così.
Gli autori, per corroborare la loro tesi sull’omogenitorialità, citano varie ricerche, di cui lei invece sottolinea le carenze metodologiche.
Buona parte di queste ricerche sono governate da persone e ricercatori omosessuali, anche famosi. Quella dell’omogenitorialità è diventata un’area quasi praticamente riservata. Di fatto, la ricerca viene quasi tutta concentrata su persone di etnia bianca, livello economico elevato e buon inserimento sociale. Gli autori spesso usano il tema della discriminazione, dello stigma, ma in realtà ci sono lobby importanti come LGBT e grant di ricerca dedicati.
Oltre ai problemi metodologici, ci sono altri problemi relativi alla ricerca psicologica su questi temi?
Certo, il problema riguarda ciò che da psicologi possiamo dire: è la prima volta che la ricerca psicologica viene chiamata in causa per dirimere questioni che non sono meramente psicologiche. Perché quando si parla di famiglia e generatività, emergono necessariamente questioni di carattere antropologico, etico e filosofico. Chiedere alla psicologia di dare risposte definitive è strumentale. Le ricerche psicologiche a sostegno dell’omogenitorialità possono dire qualcosa solo entro una cornice cognitiva-comportamentale, in cui gli aspetti considerati sono l’adattamento e la qualità della relazione. Questa qualità della relazione viene valutata sulla base della percezione che ha il genitore o il bambino, cioè in nessun modo queste ricerche studiano la relazione dal vivo e non possono rispondere a domande fondamentali quali quelle sul concepimento, le relazioni generazionali, le organizzazioni familiari, il rapporto tra i generi che è, e da sempre, un fattore di rischio così come di fondamentale opportunità.
Insomma, sono ricerche che prendono in considerazione aspetti molto parziali.
Esatto. Questa tipologia di ricerche dà dei risultati, ma ha pure i suoi limiti e non può essere presa come scientifica in sé. Il punto sta proprio qui: quando viene sollevato un dubbio circa la problematicità di queste modern families, si viene immediatamente attaccati.
Nel suo contributo sulla rivista, lei ha sottolineato l’importanza della generatività e della sua differenza con l’educazione.
Sì, c’è differenza tra gli aspetti educativi, che sono specie-specifici nel senso che la specie umana si contraddistingue in quanto capace di educare, e gli aspetti generativi, che invece sono una specificità delle relazioni familiari. E la generatività è necessariamente legata alla differenza sessuale: dunque, l’omologazione dei sessi costituisce un problema. La generatività, infatti, ci dice tantissimo del rapporto tra le generazioni e sarebbe estremamente riduttivo considerare ciò solo come rapporto genitore-bambino perché il legame familiare interessa anche i nomi, le origini, la relazione con chi non c’è più, eccetera. Il vuoto delle origini, l’eliminazione del legame complica tutto.
Siamo arrivati a questo punto anche a causa della fecondazione artificiale, che asseconda un’ideologia che pretende di affermare l’irrilevanza della natura umana.
Gli interventi, come nel caso della maternità surrogata, non costano meno di 150/200 mila dollari. I fertility centers, ben presenti anche in Europa e non solo negli Stati Uniti, sono organizzazioni di business. Così, sono state create nuove forme familiari che si basano su una fecondazione extracorporea, sotto il dominio della tecnica. Si è fatto un salto che non è indolore. Sapere dello sperma e degli ovuli congelati, venire a sapere che dal punto di vista strettamente biologico puoi avere decine e decine di fratelli (e infatti ci sono dei siti in cui le persone si cercano), il fatto di avere una-due mamme biologiche e una cosiddetta sociale, la presenza o meno di figure maschili e l’anonimato o meno del donatore sono tutte domande che riguardano le conseguenze sui figli. Non ci si può dunque non fare domande a livello antropologico e psichico. Tutt’affatto dunque che un pregiudizio e uno stigma. Anche il tema ricorrente della donazione va riconsiderato con attenzione. Non è la stessa cosa della donazione di sangue o di organi.
Domande che però la ricerca dominante non si fa più?
È come se oltre 50 anni di studi sul valore della differenza sessuale, sulla generatività, sul rapporto padre-madre-bambino, venissero letteralmente messi a tacere, spazzati via dalla ricerca dell’omologazione (nessuna differenza). Le ricerche sulle modern families sono incentrate solo sull’adattamento e, in fin dei conti, sono un tentativo sottile di annullare il familiare come dimensione cruciale dell’umano. Per parecchi colleghi ricercatori non contano infatti la struttura e l’organizzazione, ma solo la qualità della relazione, se hai più o meno “amore”. Ora, loro chiamano “organizzazione” solo l’etnia, lo status socio-economico, non hanno l’idea antropologica dei legami. Sono tutti temi che il “Centro Famiglia” dell’Università Cattolica affronterà in un Quaderno che sarà pubblicato a breve con un commento mio e di Eugenia Scabini.
Perché si nega così ostinatamente l’importanza dei legami e delle origini per il benessere dei bambini?
Sostanzialmente, l’impresa è quella di andare al di là, di fare delle cose impensabili fino a poco tempo fa: quindi è proprio una sfida del limite, alla ricerca di una cosiddetta normalità.
Ma se si supera il limite naturale, si potrà mai trovare la normalità?
Eh, questa è appunto la domanda. Noi conosciamo il tema della “hybris”, i greci ce lo hanno insegnato, ci sono dei rischi. Io penso che una buona ricerca scientifica ne debba tenere conto.
Lei ha un’esperienza quarantennale e non si è fatto condizionare nella sua libertà di ricerca. Crede che per i colleghi più giovani e in generale per le future generazioni, alla luce dell’eco che hanno i temi dell’omogenitorialità, sarà più difficile non subire condizionamenti?
Certo, come dicevo prima è come se la psicologia si fosse schierata, quasi rinunciando a 50 anni di ricerche psicosociali e cliniche sulle relazioni familiari. Il mondo è sempre stato fatto di pressioni e di lobby, che di solito portano al conformismo, che è la strada più facile: tocca ai giovani prendersi la loro responsabilità nel rispetto della differenza.