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GIUSTIZIA & MEDIA

Omicidio Meredith, il processo formato tv

La linea della difesa è stata anzitutto mediatica. Le testate hanno affrontato il caso in modo morboso. Nella società mediatica tutto fa spettacolo.

Attualità 04_10_2011
Meredith Kercher

 

Al culmine di un’attesa resa spasmodica anche dalla crescente e progressiva azione della grancassa mediatica, è infine arrivata la sentenza d’appello relativa all’omicidio di Perugia, in cui è stata assassinata Meredith Kercher [nella foto]: Raffaele Sollecito e Amanda Knox, condannati in primo grado (rispettivamente 25 e 26 anni di carcere) perché ritenuti colpevoli insieme a Rudy Guede (condannato in via definitiva a 16 anni tra patteggiamenti e altri gradi di giudizio), sono stati assolti con formula piena «per non aver commesso il fatto».

Molte e di segno spesso opposto sono state le reazioni a questo esito, in una vicenda che ha visto scendere in campo i consueti schieramenti di "innocentisti" e "colpevolisti". C’è chi ha parlato prontamente di accanimento giudiziario, ma in questo caso - come, purtroppo, in molti altri - l’accanimento è stato soprattutto mediatico.

Giornalisticamente parlando, il delitto di Perugia è un fatto altamente notiziabile. Una ragazza straniera morta in circostanze non del tutto chiaro, un possibile movente sessuale, il coinvolgimento di due "fidanzatini" amici della vittima e di un ragazzo di colore che pare un po’ scapestrato, la provenienza straniera della vittima e della sua compagna di casa, sono tutti elementi che  fanno somigliare molto la triste storia alla trama di un "giallo" tra i più classici.

Da un certo unto di vista, dunque, è naturale che i media si accaniscano su un simile evento. Ciò che appare meno scontato è lo sguardo morboso con cui le testate informative hanno affrontato il caso, soprattutto in queste ultime settimane che hanno fatto da preludio alla sentenza d’appello di lunedì sera. Più di 400 giornalisti accreditati da tutto il mondo hanno sentito il verdetto in diretta - come in diretta erano andati in onda anche gli appelli degli imputati, dell’accusa e della difesa - e le immagini di Amanda e Raffaele proclamati innocenti hanno fatto il giro del mondo in tempo reale, insieme alla notizia della loro assoluzione. A contorno del processo, migliaia di curiosi dal giorno del delitto si sono avvicendati in un vero e proprio pellegrinaggio nei pressi della casa di Perugia teatro dell’omicidio, replicando il desolante copione già visto ad Avetrana, Garlasco, Cogne e Novi Ligure…

Tanta attenzione si spiega con il fatto che le vicende di sangue - e, in questo caso, anche di (presunto) sesso - attirano sempre la curiosità morbosa del pubblico. In più, anche i diretti interessati hanno fatto la propria parte per aumentare l’attenzione intorno alle loro vicende processuali. La difesa di Amanda, in particolare, ha avuto il sostegno di veri e propri gruppi di pressione che si sono formati nel suo Paese e sono riusciti addirittura a coinvolgere direttamente nel caso Hillary Clinton, chiedendole di farsi portavoce presso il nostro governo delle istanze in difesa della giovane. E i media statunitensi hanno largamente sposato la causa della sua innocenza.

Lei e Raffaele hanno capito l’antifona e, tramite i loro avvocati, hanno fatto di tutto per rinfocolare continuamente l’attenzione dei media, nella speranza - nemmeno tanto malcelata - di riuscire a condizionare il verdetto della giuria, composta per l’occasione anche da giudici popolari. È una strategia già vista anche in altri casi, in cui gli imputati e i loro difensori si preoccupano dell’autodifesa mediatica prima ancora di quella da mettere in atto nelle aule giudiziarie.

I giornalisti, dal canto loro, non si sono fatti sfuggire nemmeno stavolta ogni appiglio per gettare benzina sul fuoco, braccando avvocati, giudici, genitori e parenti dei protagonisti. Se l’abbiano fatto - e continuino a farlo in ogni occasione simile - per fornire al pubblico informazioni utili a capire cosa sia successo, oppure per alimentare l’impatto emotivo dell’omicidio a beneficio dell’audience o delle vendite in edicola, è una domanda quasi retorica la cui risposta è fin troppo evidente. D’altro canto, se le testate informative e i media in genere sono pronti a cavalcare la cronaca nera con tanto cinismo, è anche perché sanno di rivolgersi a una massa di destinatari il cui gusto morboso per il racconto di vicende dai particolari raccapriccianti non si sazia facilmente.

Nella società mediatica tutto fa spettacolo, soprattutto quando entrano in gioco emozioni forti come quelle che può suscitare il racconto di un omicidio. Spesso, più dei contenuti sono i modi a fare la differenza. Con il pretesto di riportare elementi di indagine utili alla comprensione della dinamica dell’omicidio, si indugia sui particolari più macabri, sanguinosi o intimi, si dà voce a chi grida più forte o a chi la spara più grossa, si spacciano come certezze le ipotesi interpretative dei presunti esperti, si rendono protagonisti i destinatari dell’informazione attraverso sondaggi senza nessuna rilevanza informativa ma capaci di far sentire attivamente coinvolto anche il cittadino qualsiasi.

Il rischio di una deriva comunicativa è evidente: continuando a raccontare i fatti di cronaca nera con toni sensazionalistici e modalità tipiche del giallo a puntate, si abituano lettori e spettatori a un impatto efficace dal punto di vista del coinvolgimento emotivo ma controproducente rispetto alla capacità di critica razionale e di corretta decodifica di quanto succede intorno a noi.

Faremmo bene, di fronte a casi come quello di Perugia, a chiederci perché dedichiamo la nostra attenzione a certe notizie piuttosto che ad altre. Dipende dal loro contenuto e dal loro oggettivo interesse, oppure è il frutto di una precisa strategia degli operatori dei media, interessati a catturare la nostra attenzione e il nostro tempo a tutti i costi invece che a informarci correttamente?