PAPA
«Ogni vocazione personale ha dimensione ecclesiale»
In una lectio divina ai seminaristi romani, Benedetto XVI ha affrontato in profondità il tema della vocazione cristiana.
Attualità
07_03_2011
Come ogni anno nel giorno della Madonna della Fiducia, patrona del Seminario Romano Maggiore, Benedetto XVI ha visitato il 4 marzo i «suoi» seminaristi romani. Quest’anno ha proposto loro una lectio divina sull’inizio della seconda parte della Lettera agli Efesini: il capitolo quarto, dove san Paolo parla della vocazione cristiana. La lectio che il Papa ha voluto proporre è certamente appropriata per dei seminaristi, ma il brano di san Paolo è rivolto in realtà a tutti i fedeli.
«Questo testo – ha detto il Papa – apre la seconda parte della Lettera agli Efesini, la cosiddetta parte parenetica, esortativa e comincia con la parola “parakalo”, “vi esorto”. Ma è la stessa parola che sta anche nel termine “Paraklitos”, quindi è un’esortazione nella luce, nella forza dello Spirito Santo». Questa esortazione del capitolo quarto è strettamente collegata al dono della salvezza, che la Lettera agli Efesini aveva presentato nei primi tre capitoli. «Infatti, il nostro brano inizia con la parola “dunque”: “Io dunque…vi esorto…” (v. 1). Il comportamento dei cristiani è la conseguenza del dono, la realizzazione di quanto ci è donato ogni giorno.
E, tuttavia, se è semplicemente realizzazione del dono datoci, non si tratta di un effetto automatico, perché con Dio siamo sempre nella realtà della libertà e perciò – poiché la risposta, anche la realizzazione del dono è libertà – l’Apostolo deve richiamarlo, non può darlo per scontato. Il Battesimo, lo sappiamo, non produce automaticamente una vita coerente: questa è frutto della volontà e dell’impegno perseverante di collaborare con il dono, con la Grazia ricevuta. E questo impegno costa, c’è un prezzo da pagare di persona».
«Forse per questo – ha proseguito il Papa – san Paolo fa riferimento proprio qui alla sua attuale condizione: “Io dunque, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto…” (ibid.). Seguire Cristo significa condividere la sua Passione, la sua Croce, seguirlo fino in fondo, e questa partecipazione alla sorte del Maestro unisce profondamente a Lui e rafforza l’autorevolezza dell’esortazione dell’Apostolo». Un primo insegnamento del brano commentato è dunque che il dono della salvezza è offerto gratuitamente da Dio, ma accoglierlo richiede fatica e sacrificio, se necessario fino alla persecuzione e al martirio.
Nel brano paolino incontriamo anche, ha detto il Pontefice ai seminaristi, «una parola che ci colpisce in modo particolare: la parola “chiamata”, “vocazione”. San Paolo scrive: “comportatevi in maniera degna della chiamata, della klesis che avete ricevuto” (ibid.). E la ripeterà poco dopo, affermando che “…una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione” (v. 4)». San Paolo qui non sta parlando della vocazione al sacerdozio: «Si tratta della vocazione comune a tutti i cristiani, cioè della vocazione battesimale: la chiamata ad essere di Cristo e a vivere in Lui, nel suo corpo». La parola «vocazione» – un tema centrale anche nell’enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate –, pure se nel linguaggio comune indica primariamente la chiamata alla vita sacerdotale o religiosa, si applica in realtà a ogni cristiano. Ognuno è chiamato da Dio a svolgere un compito specifico. «La vita cristiana comincia con una chiamata e rimane sempre una risposta, fino alla fine. E ciò sia nella dimensione del credere, sia in quella dell’agire: tanto la fede quanto il comportamento del cristiano sono corrispondenza alla grazia della vocazione».
Questo è tanto vero che la più grande «vocazione» è quella della Madonna, che fu una moglie e una madre. Noi «pensiamo con la parola “chiamata” soprattutto alla Madre di ogni chiamata, a Maria Santissima, l’eletta, la Chiamata per eccellenza. L’icona dell’Annunciazione a Maria rappresenta ben di più di quel particolare episodio evangelico, per quanto fondamentale: contiene tutto il mistero di Maria, tutta la sua storia, il suo essere; e al tempo stesso parla della Chiesa, della sua essenza di sempre; come pure di ogni singolo credente in Cristo, di ogni anima cristiana chiamata».
Né si tratta solo della Madonna, degli apostoli e dei santi. «Dio, il Signore, ha chiamato ognuno di noi, ognuno è chiamato con il nome suo. Dio è così grande che ha tempo per ciascuno di noi, conosce me, conosce ognuno di noi per nome, personalmente. È una chiamata personale per ognuno di noi. Penso che dobbiamo meditare diverse volte questo mistero: Dio, il Signore, ha chiamato me, chiama me, mi conosce, aspetta la mia risposta come aspettava la risposta di Maria, aspettava la risposta degli Apostoli. Dio mi chiama: questo fatto dovrebbe farci attenti alla voce di Dio, attenti alla sua Parola, alla sua chiamata per me, per rispondere, per realizzare questa parte della storia della salvezza per la quale ha chiamato me». Le riflessioni che il Papa propone con riferimento alla chiamata speciale dei seminaristi valgono dunque per qualunque vocazione.
Come dobbiamo rispondere alla «vocazione», cioè alla chiamata del Signore che si rivolge a ognuno di noi? «San Paolo – ha spiegato il Papa – ci indica qualche elemento concreto di questa risposta con quattro parole: “umiltà”, “dolcezza”, “magnanimità”, “sopportandovi a vicenda nell’amore”». Il Pontefice ha commentato ciascuna di queste quattro espressioni.
Anzitutto, «“umiltà”: la parola greca è “tapeinophrosyne”, la stessa parola che san Paolo usa nella Lettera ai Filippesi quando parla del Signore, che era Dio e si è umiliato, si è fatto “tapeinos”, è sceso fino al farsi creatura, fino al farsi uomo, fino all’obbedienza della Croce (cfr Fil 2,7-8)». L’umiltà di cui parla la Sacra Scrittura non è un semplice tratto del carattere, che si confonde con la modestia e la buona educazione. Qui «umiltà» «non è una parola qualunque, una qualche modestia, qualcosa… ma è una parola cristologica. Imitare il Dio che scende fino a me, che è così grande che si fa mio amico, soffre per me, è morto per me. Questa è l’umiltà da imparare, l’umiltà di Dio. Vuol dire che dobbiamo vederci sempre nella luce di Dio; così, nello stesso tempo, possiamo conoscere la grandezza di essere una persona amata da Dio, ma anche la nostra piccolezza, la nostra povertà, e così comportarci giustamente, non come padroni, ma come servi».
La seconda parola usata da san Paolo è «“dolcezza”: nel testo greco qui sta la parola “praütes”, la stessa parola che appare nelle Beatitudini: “Beati i miti perché avranno in eredità la terra” (Mt 5,5,). E nel Libro dei Numeri, il quarto libro di Mosé, troviamo l’affermazione che Mosé era l’uomo più mite del mondo (cfr 12,3) e, in questo senso, era una prefigurazione di Cristo, di Gesù, che dice di sé: “Io sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Anche questa parola, quindi, “mite”, “dolcezza”, è una parola cristologica e implica di nuovo questo imitare Cristo. Perché nel Battesimo siamo conformati a Cristo, quindi dobbiamo conformarci a Cristo, trovare questo spirito dell’essere miti, senza violenza, di convincere con l’amore e con la bontà».
In terzo luogo, san Paolo vuole che rispondiamo alla nostra vocazione con «“magnanimità”, “makrothymia” – vuol dire la generosità del cuore, non essere minimalisti che danno solo ciò che è strettamente necessario: diamo noi stessi con tutto quello che possiamo, e cresciamo anche noi nella magnanimità».
E tutto questo – è la quarta espressione paolina – «“sopportandovi nell’amore”: è un compito di ogni giorno sopportarsi l’un l’altro nella propria alterità, e proprio sopportandoci con umiltà, imparare il vero amore».
Queste quattro parole non ci dicono ancora tutto, ha affermato Benedetto XVI. Occorre fare «un passo avanti. Dopo questa parola della chiamata, segue la dimensione ecclesiale. Abbiamo parlato adesso della vocazione come di una chiamata molto personale: Dio chiama me, conosce me, aspetta la mia risposta personale. Ma, nello stesso tempo, la chiamata di Dio è una chiamata in comunità, è una chiamata ecclesiale, Dio ci chiama in una comunità. E’ vero che in questo brano che stiamo meditando non c’è la parola “ekklesia”, la parola “Chiesa”, ma appare tanto più la realtà. San Paolo parla di uno Spirito e un corpo. Lo Spirito si crea il corpo e ci unisce come un unico corpo».
Dunque «siamo chiamati personalmente, ma siamo chiamati in un corpo. E questo non è una cosa astratta, ma molto reale». Ancora una volta, l’osservazione non vale solo per i seminaristi e i sacerdoti. Ogni vocazione è insieme sempre sociale ed ecclesiale, non semplicemente individuale.
Anche questa natura della vocazione implica sacrificio. La vocazione ci porterà comunque in un contesto sociale dove, ha detto realisticamente il Papa, incontreremo persone «simpatiche e non simpatiche». Infatti «la Chiesa è corpo, quindi ha strutture, ha anche realmente un diritto e qualche volta non è così semplice inserirsi. Certo, vogliamo la relazione personale con Dio, però il corpo spesso non ci piace. Ma proprio così siamo in comunione con Cristo: accettando questa corporeità della sua Chiesa, dello Spirito, che si incarna nel corpo».
Ma la comunità non è solo fatica e pesantezza: al contrario, «è molto bello essere in una compagnia, camminare in una grande compagnia di tutti i secoli, avere amici in Cielo e in terra, e sentire la bellezza di questo corpo, essere felici che il Signore ci ha chiamati in un corpo e ci ha dato amici in tutte le parti del mondo».
Non è solo una curiosità a proposito del passo di san Paolo osservare che «sette volte, in questo piccolo brano, ritorna la parola “uno”. Così sentiamo come sta a cuore all’Apostolo l’unità della Chiesa. E finisce con una “scala di unità”, fino all’Unità: Uno è Dio, il Dio di tutti. Dio è Uno e l’unicità di Dio si esprime nella nostra comunione, perché Dio è il Padre, il Creatore di tutti noi e perciò tutti siamo fratelli, tutti siamo un corpo e l’unità di Dio è la condizione, è la creazione anche della fraternità umana, della pace».
È a questo punto possibile, secondo Benedetto XVI, «un ulteriore passo avanti». La vocazione, ogni vocazione, è anche «una delle porte che si aprono sul mistero trinitario. Finora abbiamo parlato del mistero della Chiesa, dell’unico Dio, ma appare anche il mistero trinitario. Gesù è il mediatore della chiamata del Padre che avviene nello Spirito Santo. La vocazione cristiana non può che avere una forma trinitaria, sia a livello di singola persona, sia a livello di comunità ecclesiale». Il Papa insiste sempre sul fatto che si tratta di considerazioni che non valgono solo per la specifica vocazione al sacerdozio. In realtà, «la chiamata di ogni singolo cristiano è un mistero trinitario: il mistero dell’incontro con Gesù, con la Parola fatta carne, mediante la quale Dio Padre ci chiama alla comunione con Sé e per questo ci vuole donare il suo Santo Spirito, ed è proprio grazie allo Spirito che noi possiamo rispondere a Gesù e al Padre in modo autentico, all’interno di una relazione reale, filiale. Senza il soffio dello Spirito Santo la vocazione cristiana semplicemente non si spiega, perde la sua linfa vitale».
Infine, san Paolo insiste sul fatto che l’unità nello Spirito Santo va conservata nella Chiesa «per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,2-3). «L’unità della Chiesa non è data da uno “stampo” imposto dall’esterno, ma è il frutto di una concordia, di un comune impegno di comportarsi come Gesù, in forza del suo Spirito». Il Papa cita il commento di san Giovanni Crisostomo (ca. 344-407) a questo passo paolino. A proposito del «vincolo della pace» scrive il santo dottore della Chiesa: «“È bello questo vincolo, con cui ci leghiamo insieme sia gli uni con gli altri sia con Dio. Non è una catena che ferisce. Non dà crampi alle mani, le lascia libere, dà loro ampio spazio e un coraggio più grande” (Omelie sull’Epistola agli Efesini 9, 4, 1-3)».
Ci sono catene che non legano per la schiavitù ma per la libertà: sta tutto qui quello che il Papa chiama il «paradosso evangelico». San Paolo, quando scrive queste parole, è effettivamente in catene, perseguitato come tanti cristiani di oggi. «L’Apostolo è in catene a motivo del Signore, come Gesù stesso, si è fatto schiavo per liberarci». Ma la sua prigionia, il trovarsi come si diceva allora in vinculis, «in catene», diventa anche metafora dei vincoli che, incatenando saldamente il cristiano a Cristo, lo fanno libero. «Per conservare l’unità dello spirito occorre improntare il proprio comportamento a quella umiltà, dolcezza e magnanimità che Gesù ha testimoniato nella sua passione; bisogna avere le mani e il cuore legati da quel vincolo d’amore che Lui stesso ha accettato per noi, facendosi nostro servo. Questo è il “vincolo della pace”. E dice ancora san Giovanni Crisostomo, nello stesso commento: “Legatevi ai vostri fratelli, quelli così legati insieme nell’amore sopportano tutto con facilità… Così egli vuole che siamo legati gli uni agli altri, non solo per essere in pace, non solo per essere amici, ma per essere tutti uno, un’anima sola” (ibid.)».
Naturalmente il testo paolino sulla vocazione può e deve avere un significato speciale per chi si prepara al sacerdozio. Ma il Papa ha insistito ripetutamente sul fatto che la meditazione sulla vocazione è fondamentale, tanto più in un’epoca di confusione e di dubbio, per ogni cristiano.
«Questo testo – ha detto il Papa – apre la seconda parte della Lettera agli Efesini, la cosiddetta parte parenetica, esortativa e comincia con la parola “parakalo”, “vi esorto”. Ma è la stessa parola che sta anche nel termine “Paraklitos”, quindi è un’esortazione nella luce, nella forza dello Spirito Santo». Questa esortazione del capitolo quarto è strettamente collegata al dono della salvezza, che la Lettera agli Efesini aveva presentato nei primi tre capitoli. «Infatti, il nostro brano inizia con la parola “dunque”: “Io dunque…vi esorto…” (v. 1). Il comportamento dei cristiani è la conseguenza del dono, la realizzazione di quanto ci è donato ogni giorno.
E, tuttavia, se è semplicemente realizzazione del dono datoci, non si tratta di un effetto automatico, perché con Dio siamo sempre nella realtà della libertà e perciò – poiché la risposta, anche la realizzazione del dono è libertà – l’Apostolo deve richiamarlo, non può darlo per scontato. Il Battesimo, lo sappiamo, non produce automaticamente una vita coerente: questa è frutto della volontà e dell’impegno perseverante di collaborare con il dono, con la Grazia ricevuta. E questo impegno costa, c’è un prezzo da pagare di persona».
«Forse per questo – ha proseguito il Papa – san Paolo fa riferimento proprio qui alla sua attuale condizione: “Io dunque, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto…” (ibid.). Seguire Cristo significa condividere la sua Passione, la sua Croce, seguirlo fino in fondo, e questa partecipazione alla sorte del Maestro unisce profondamente a Lui e rafforza l’autorevolezza dell’esortazione dell’Apostolo». Un primo insegnamento del brano commentato è dunque che il dono della salvezza è offerto gratuitamente da Dio, ma accoglierlo richiede fatica e sacrificio, se necessario fino alla persecuzione e al martirio.
Nel brano paolino incontriamo anche, ha detto il Pontefice ai seminaristi, «una parola che ci colpisce in modo particolare: la parola “chiamata”, “vocazione”. San Paolo scrive: “comportatevi in maniera degna della chiamata, della klesis che avete ricevuto” (ibid.). E la ripeterà poco dopo, affermando che “…una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione” (v. 4)». San Paolo qui non sta parlando della vocazione al sacerdozio: «Si tratta della vocazione comune a tutti i cristiani, cioè della vocazione battesimale: la chiamata ad essere di Cristo e a vivere in Lui, nel suo corpo». La parola «vocazione» – un tema centrale anche nell’enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate –, pure se nel linguaggio comune indica primariamente la chiamata alla vita sacerdotale o religiosa, si applica in realtà a ogni cristiano. Ognuno è chiamato da Dio a svolgere un compito specifico. «La vita cristiana comincia con una chiamata e rimane sempre una risposta, fino alla fine. E ciò sia nella dimensione del credere, sia in quella dell’agire: tanto la fede quanto il comportamento del cristiano sono corrispondenza alla grazia della vocazione».
Questo è tanto vero che la più grande «vocazione» è quella della Madonna, che fu una moglie e una madre. Noi «pensiamo con la parola “chiamata” soprattutto alla Madre di ogni chiamata, a Maria Santissima, l’eletta, la Chiamata per eccellenza. L’icona dell’Annunciazione a Maria rappresenta ben di più di quel particolare episodio evangelico, per quanto fondamentale: contiene tutto il mistero di Maria, tutta la sua storia, il suo essere; e al tempo stesso parla della Chiesa, della sua essenza di sempre; come pure di ogni singolo credente in Cristo, di ogni anima cristiana chiamata».
Né si tratta solo della Madonna, degli apostoli e dei santi. «Dio, il Signore, ha chiamato ognuno di noi, ognuno è chiamato con il nome suo. Dio è così grande che ha tempo per ciascuno di noi, conosce me, conosce ognuno di noi per nome, personalmente. È una chiamata personale per ognuno di noi. Penso che dobbiamo meditare diverse volte questo mistero: Dio, il Signore, ha chiamato me, chiama me, mi conosce, aspetta la mia risposta come aspettava la risposta di Maria, aspettava la risposta degli Apostoli. Dio mi chiama: questo fatto dovrebbe farci attenti alla voce di Dio, attenti alla sua Parola, alla sua chiamata per me, per rispondere, per realizzare questa parte della storia della salvezza per la quale ha chiamato me». Le riflessioni che il Papa propone con riferimento alla chiamata speciale dei seminaristi valgono dunque per qualunque vocazione.
Come dobbiamo rispondere alla «vocazione», cioè alla chiamata del Signore che si rivolge a ognuno di noi? «San Paolo – ha spiegato il Papa – ci indica qualche elemento concreto di questa risposta con quattro parole: “umiltà”, “dolcezza”, “magnanimità”, “sopportandovi a vicenda nell’amore”». Il Pontefice ha commentato ciascuna di queste quattro espressioni.
Anzitutto, «“umiltà”: la parola greca è “tapeinophrosyne”, la stessa parola che san Paolo usa nella Lettera ai Filippesi quando parla del Signore, che era Dio e si è umiliato, si è fatto “tapeinos”, è sceso fino al farsi creatura, fino al farsi uomo, fino all’obbedienza della Croce (cfr Fil 2,7-8)». L’umiltà di cui parla la Sacra Scrittura non è un semplice tratto del carattere, che si confonde con la modestia e la buona educazione. Qui «umiltà» «non è una parola qualunque, una qualche modestia, qualcosa… ma è una parola cristologica. Imitare il Dio che scende fino a me, che è così grande che si fa mio amico, soffre per me, è morto per me. Questa è l’umiltà da imparare, l’umiltà di Dio. Vuol dire che dobbiamo vederci sempre nella luce di Dio; così, nello stesso tempo, possiamo conoscere la grandezza di essere una persona amata da Dio, ma anche la nostra piccolezza, la nostra povertà, e così comportarci giustamente, non come padroni, ma come servi».
La seconda parola usata da san Paolo è «“dolcezza”: nel testo greco qui sta la parola “praütes”, la stessa parola che appare nelle Beatitudini: “Beati i miti perché avranno in eredità la terra” (Mt 5,5,). E nel Libro dei Numeri, il quarto libro di Mosé, troviamo l’affermazione che Mosé era l’uomo più mite del mondo (cfr 12,3) e, in questo senso, era una prefigurazione di Cristo, di Gesù, che dice di sé: “Io sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Anche questa parola, quindi, “mite”, “dolcezza”, è una parola cristologica e implica di nuovo questo imitare Cristo. Perché nel Battesimo siamo conformati a Cristo, quindi dobbiamo conformarci a Cristo, trovare questo spirito dell’essere miti, senza violenza, di convincere con l’amore e con la bontà».
In terzo luogo, san Paolo vuole che rispondiamo alla nostra vocazione con «“magnanimità”, “makrothymia” – vuol dire la generosità del cuore, non essere minimalisti che danno solo ciò che è strettamente necessario: diamo noi stessi con tutto quello che possiamo, e cresciamo anche noi nella magnanimità».
E tutto questo – è la quarta espressione paolina – «“sopportandovi nell’amore”: è un compito di ogni giorno sopportarsi l’un l’altro nella propria alterità, e proprio sopportandoci con umiltà, imparare il vero amore».
Queste quattro parole non ci dicono ancora tutto, ha affermato Benedetto XVI. Occorre fare «un passo avanti. Dopo questa parola della chiamata, segue la dimensione ecclesiale. Abbiamo parlato adesso della vocazione come di una chiamata molto personale: Dio chiama me, conosce me, aspetta la mia risposta personale. Ma, nello stesso tempo, la chiamata di Dio è una chiamata in comunità, è una chiamata ecclesiale, Dio ci chiama in una comunità. E’ vero che in questo brano che stiamo meditando non c’è la parola “ekklesia”, la parola “Chiesa”, ma appare tanto più la realtà. San Paolo parla di uno Spirito e un corpo. Lo Spirito si crea il corpo e ci unisce come un unico corpo».
Dunque «siamo chiamati personalmente, ma siamo chiamati in un corpo. E questo non è una cosa astratta, ma molto reale». Ancora una volta, l’osservazione non vale solo per i seminaristi e i sacerdoti. Ogni vocazione è insieme sempre sociale ed ecclesiale, non semplicemente individuale.
Anche questa natura della vocazione implica sacrificio. La vocazione ci porterà comunque in un contesto sociale dove, ha detto realisticamente il Papa, incontreremo persone «simpatiche e non simpatiche». Infatti «la Chiesa è corpo, quindi ha strutture, ha anche realmente un diritto e qualche volta non è così semplice inserirsi. Certo, vogliamo la relazione personale con Dio, però il corpo spesso non ci piace. Ma proprio così siamo in comunione con Cristo: accettando questa corporeità della sua Chiesa, dello Spirito, che si incarna nel corpo».
Ma la comunità non è solo fatica e pesantezza: al contrario, «è molto bello essere in una compagnia, camminare in una grande compagnia di tutti i secoli, avere amici in Cielo e in terra, e sentire la bellezza di questo corpo, essere felici che il Signore ci ha chiamati in un corpo e ci ha dato amici in tutte le parti del mondo».
Non è solo una curiosità a proposito del passo di san Paolo osservare che «sette volte, in questo piccolo brano, ritorna la parola “uno”. Così sentiamo come sta a cuore all’Apostolo l’unità della Chiesa. E finisce con una “scala di unità”, fino all’Unità: Uno è Dio, il Dio di tutti. Dio è Uno e l’unicità di Dio si esprime nella nostra comunione, perché Dio è il Padre, il Creatore di tutti noi e perciò tutti siamo fratelli, tutti siamo un corpo e l’unità di Dio è la condizione, è la creazione anche della fraternità umana, della pace».
È a questo punto possibile, secondo Benedetto XVI, «un ulteriore passo avanti». La vocazione, ogni vocazione, è anche «una delle porte che si aprono sul mistero trinitario. Finora abbiamo parlato del mistero della Chiesa, dell’unico Dio, ma appare anche il mistero trinitario. Gesù è il mediatore della chiamata del Padre che avviene nello Spirito Santo. La vocazione cristiana non può che avere una forma trinitaria, sia a livello di singola persona, sia a livello di comunità ecclesiale». Il Papa insiste sempre sul fatto che si tratta di considerazioni che non valgono solo per la specifica vocazione al sacerdozio. In realtà, «la chiamata di ogni singolo cristiano è un mistero trinitario: il mistero dell’incontro con Gesù, con la Parola fatta carne, mediante la quale Dio Padre ci chiama alla comunione con Sé e per questo ci vuole donare il suo Santo Spirito, ed è proprio grazie allo Spirito che noi possiamo rispondere a Gesù e al Padre in modo autentico, all’interno di una relazione reale, filiale. Senza il soffio dello Spirito Santo la vocazione cristiana semplicemente non si spiega, perde la sua linfa vitale».
Infine, san Paolo insiste sul fatto che l’unità nello Spirito Santo va conservata nella Chiesa «per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,2-3). «L’unità della Chiesa non è data da uno “stampo” imposto dall’esterno, ma è il frutto di una concordia, di un comune impegno di comportarsi come Gesù, in forza del suo Spirito». Il Papa cita il commento di san Giovanni Crisostomo (ca. 344-407) a questo passo paolino. A proposito del «vincolo della pace» scrive il santo dottore della Chiesa: «“È bello questo vincolo, con cui ci leghiamo insieme sia gli uni con gli altri sia con Dio. Non è una catena che ferisce. Non dà crampi alle mani, le lascia libere, dà loro ampio spazio e un coraggio più grande” (Omelie sull’Epistola agli Efesini 9, 4, 1-3)».
Ci sono catene che non legano per la schiavitù ma per la libertà: sta tutto qui quello che il Papa chiama il «paradosso evangelico». San Paolo, quando scrive queste parole, è effettivamente in catene, perseguitato come tanti cristiani di oggi. «L’Apostolo è in catene a motivo del Signore, come Gesù stesso, si è fatto schiavo per liberarci». Ma la sua prigionia, il trovarsi come si diceva allora in vinculis, «in catene», diventa anche metafora dei vincoli che, incatenando saldamente il cristiano a Cristo, lo fanno libero. «Per conservare l’unità dello spirito occorre improntare il proprio comportamento a quella umiltà, dolcezza e magnanimità che Gesù ha testimoniato nella sua passione; bisogna avere le mani e il cuore legati da quel vincolo d’amore che Lui stesso ha accettato per noi, facendosi nostro servo. Questo è il “vincolo della pace”. E dice ancora san Giovanni Crisostomo, nello stesso commento: “Legatevi ai vostri fratelli, quelli così legati insieme nell’amore sopportano tutto con facilità… Così egli vuole che siamo legati gli uni agli altri, non solo per essere in pace, non solo per essere amici, ma per essere tutti uno, un’anima sola” (ibid.)».
Naturalmente il testo paolino sulla vocazione può e deve avere un significato speciale per chi si prepara al sacerdozio. Ma il Papa ha insistito ripetutamente sul fatto che la meditazione sulla vocazione è fondamentale, tanto più in un’epoca di confusione e di dubbio, per ogni cristiano.