Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Giovanni da Kety a cura di Ermes Dovico
SAN GIUSEPPE

Ogni paternità viene da Dio

Con Giuseppe Gesù aveva vissuto un’esperienza di figliolanza così intensa e vera da poterla applicare con uno slancio immediato al suo rapporto di Figlio con il Padre.

Attualità 18_03_2012
San Giuseppe

Lo chiamava papà. Papà Giuseppe. Nella casa di Nazaret, dalla quale si allungava il pancone di lavoro davanti alla porta, il bambino Gesù giocava, guardava, imparava. Papà Giuseppe lavorava, e Maria lavava, puliva, rassettava, tesseva, cucinava.  Quello di Giuseppe era un lavoro riconosciuto e apprezzato, come accade ad ogni buon artigiano di paese che si presta a tanti lavori nelle case e nelle piccole aziende. Era lui il falegname della contrada, e Gesù aveva imparato così bene il mestiere, che in seguito, essendo venuto a mancare Giuseppe, la gente aveva cominciato a chiamare pure lui ‘il falegname’.

La ‘dolce immagine paterna’ di Giuseppe si è fissata in modo così profondo nel cuore di Cristo, che a un certo punto gli è diventato naturale chiamare Dio, il Padre che sta nei cieli, con lo stesso appellativo con il quale da bambino chiamava Giuseppe: Abbà, Papà. Il nome gli è affiorato sulle labbra in modo denso e chiaro nel drammatico silenzio della notte lunare dell’Orto degli Ulivi: l’hanno chiaramente udito Pietro, Giacomo e Giovanni. Gesù aveva vissuto un’esperienza di figliolanza così intensa e vera da poterla applicare con uno slancio immediato al suo rapporto di Figlio con il Padre.

E’ il miracolo del linguaggio umano, ma più ancora è il contenuto di ogni esperienza umana vera: proprio perché umana, proprio perché vera, è segno di Dio, rimanda a Lui e in qualche modo già lo manifesta. Comprendiamo perché Gesù dice nel Vangelo: “E non chiamate nessuno "padre" sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo”. Ogni paternità viene da Dio, ne è un riflesso e un’immagine, costituisce un tentativo di traduzione, un rimando.


E dunque, che cosa perdiamo quando perdiamo il padre, quando la sua figura svanisce nell’equivoco delle deformazioni del ‘genere’ o nei futuribili delle famiglie private dell’identità di padre e madre? Perdiamo la nostra identità di figli, perdiamo l’aggancio con l’origine, la capacità di relazione, la sicurezza del presente, la speranza del futuro. Alla fine, perdiamo Dio e rimaniamo privi della strada che conduce al compimento del nostro destino. Navighiamo smarriti senza protezione, senza appartenenza, senza modello. Non abbiamo più nessuno da guardare, perché non abbiamo mai guardato nessuno oltre noi stessi.

Senza Padre, non abbiamo nemmeno fratelli, e rimaniamo completamente soli. Ecco perché Gesù ha avuto bisogno di sperimentare un padre umano, un uomo giusto, fedele al Dio che gli indicava la strada umanamente impossibile del matrimonio verginale con Maria, totalmente disposto a sostenere e difendere ‘il bambino e sua madre’, un giovane padre robusto, capace di affrontare le fatiche del lavoro e dell’esilio, le pesantezze del viaggio e la fuga da Erode. A un certo momento Giuseppe, padre terreno, sparisce, e lascia tutto lo spazio al Padre celeste. Ma ormai l’esperienza è acquisita, l’uomo Gesù è maturato, può dedicarsi completamente a operare come Dio opera, fino al momento in cui consegna tutto il suo spirito nelle braccia del Padre celeste.