Occorre smettere di pregare per gli ebrei?
60 anni di liturgia cattolica del Venerdì Santo: un cammino importante
Nelle scorse settimane il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna, in un articolo nel quale si criticava la fiction di RaiUno dedicata a Pio XII pubblicato su L’Osservatore Romano, ha auspicato che la Chiesa cattolica smetta di pregare per la conversione degli ebrei. «Un gesto utile, necessario e certamente apprezzato – ha scritto Gattegna – sarebbe un’aperta dichiarazione di rinuncia da parte della Chiesa a qualsiasi manifestazione di intento rivolto alla conversione degli ebrei, accompagnata dall’eliminazione di questo auspicio dalla liturgia del Venerdì che precede la Pasqua».
Può valer la pena ripercorrere le tappe della storia recente della liturgia cattolica del Venerdì Santo, per comprendere il cammino fatto dalla Chiesa negli ultimi sessant’anni. Pochi sanno, ad esempio, che Pio XII è stato il primo Papa, dopo più di dieci secoli, ad inserire nella liturgia dei miglioramenti in favore degli ebrei. E che lo fece anche su esplicita richiesta di Israel Eugenio Zolli [nella foto], l’ex rabbino capo di Roma, il quale alla fine della guerra chiese il battesimo e si fece cattolico prendendo il nome di Papa Pacelli.
Fin dal pontificato di Gregorio Magno, nella celebrazione del Venerdì Santo si faceva riferimento ai perfidi Judaei e alla perfidia Judaica. Come i filologi sanno, il termine perfidi in latino ha il significato di miscredenti, e il riferimento nella liturgia cattolica era a quelli che non vogliono accettare la fede cristiana. Con l’introduzione dei messalini nelle lingue nazionali e dunque con le traduzioni, quel perfidi latino si era trasformato nell’inglese perfidious, nel francese perfide, nel tedesco treulos, nell’olandese trouweloos, nell’italiano perfidi. Da una constatazione si era cioè passati a una condanna morale, dato che il termine nelle varie lingue aveva assunto un significato diverso.
Zolli chiese a Pio XII di cancellare l’espressione. Il Papa rispose che il significato della parola latina non conteneva un giudizio morale, ma soltanto la constatazione del fatto che i giudei rifiutavano la fede cristiana ed erano dunque infedeli. Ma renderndosi conto del problema, volle far fare una precisazione sull’argomento dalla Sacra Congregazione dei Riti, pubblicata il 10 giugno 1948. Dunque, spiegava la Santa Sede, i perfidi Judaei erano i giudei infedeli e non perfidi.
Nonostante il chiarmento voluto dal Pontefice, era evidente che quell’espressione venisse considerata come una pesante condanna morale.
Il 16 ottobre 1949 il professore ebreo Jules Isaac, ricevuto in udienza a Castelgandolfo, fece notare a Papa Pacelli un altro problema. Nella stessa liturgia del Venerdì Santo, al contrario degli altri casi, quando si pregava per i giudei, all’ottava supplica, il popolo e il sacerdote non si inginocchiavano ma rimanevano in piedi. Isaac spiega al Pontefice che «l’omissione della genuflessione, al momento della preghiera per i giudei, costituiva forse un fattore ancor più importante dell’errata traduzione di perfidus». «Pio XII mi ascoltò con comprensiva simpatia», aggiungeva il professore, «poi gentilmente mi diede la sua apostolica benedizione, che ricevetti con gratitudine e profondo rispetto». Sei anni dopo, finalmente, con la riforma della Settimana Santa – preludio della riforma liturgica conciliare – venne introdotta la genuflessione annunciata dal flectamus genua anche per la preghiera dedicata agli ebrei, come avveniva nelle altre orazioni di quella liturgia.
Il 27 novembre 1955, «L’Osservatore Romano» pubblicava infatti un nuovo ordinario della Settimana Santa imponendo la procedura di «inginocchiarsi, pregare in silenzio e poi rialzarsi» anche per l’ottava supplica. «Per piccoli ed esitanti che fossero questi due passi», scrive Pinchas Lapide, già console onorario d’Israele a Milano e autore di un libro sui rapporti tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo, «furono i primi miglioramenti a favore degli ebrei introdotti nella tradizione cattolica dal Medio Evo, che aprirono la porta a cambiamenti più profondi e di più ampia portata effettuati dal successore di Pio XII».
L’espressione perfidi sarà infatti definitivamente abolita da Giovanni XXIII nell’ultima edizione del messale preconciliare. Del problema non si è più parlato fino al 2007, quando Benedetto XVI ha liberalizzato la liturgia antica con il motu proprio Summorum Pontificum. Il messale liberalizzato è quello del 1962 promulgato da Papa Giovanni, e dunque la versione della preghiera del Venerdì Santo era già stata purgata de riferimenti ai perfidi e alla perfidia.
Alcuni esponenti della comunità ebraica, però, protestarono, perché nella preghiera antica, nonostante le cancellazioni di Giovanni XXIII; era rimasto un riferimento «all’accecamento» degli ebrei, e alla preghiera a Gesù di togliere «il velo» dai loro occhi. Si trattava di una citazione di un brano di san Paolo. Benedetto XVI, rispondendo a questa richiesta, prima che la preghiera del Venerdì Santo nel rito antico liberalizzato venisse pronunciata per la prima volta, l’ha modificata di suo pugno, cancellando anche il riferimento all’«accecamento» e al «velo». Nell’ultima versione la Chiesa prega perché gli ebrei siano illuminati da Cristo.
Anche questa versione, però, non piace, e così il presidente Gattegna chiede che per gli ebrei proprio non si preghi. A parte il fatto che i cristiani pregano sempre, innanzitutto, per la loro propria conversione, può essere utile pubblicare questa nota di Paolo VI, il quale, il 21 maggio 1964 trasmetteva un appunto al segretario generale del Concilio, Pericle Felici, a proposito dello schema de Oecumenismo: «Sembrerebbe bene riprendere anche le parole dello schema primitivo circa la speranza della futura conversione di Israele , perché esse indicano che la condizione in cui gli ebrei si trovano ora, anche se degna di rispetto e di simpatia, non è da approvarsi , come perfetta e definitiva, e perché tale speranza è esplicitamente espressa dalla dottrina di San Paolo sugli Ebrei».
Nell’esortazione post-sinodale Verbum Domini, pubblicata nel novembre 2010, il documento che raccoglie il lavoro del Sinodo tenutosi due anni fa sulla Parola di Dio, Benedetto XVI scrive: «Non possiamo tenere per noi le parole di vita eterna che ci sono date nell’incontro con Gesù Cristo: esse sono per tutti, per ogni uomo. Ogni persona del nostro tempo, lo sappia oppure no, ha bisogno di questo annuncio». Questo non significa, ovviamente, fare proselitismo. Ma, nonostante le tante ferite e sofferenze che in passato gli ebrei hanno dovuto subire, non è facile comprendere come una semplice preghiera possa essere vissuta come una minaccia e un ostacolo ai rapporti di amicizia e di stima reciproca che grazie a Dio caratterizzano – e non da ieri – le relazioni tra cristiani ed ebrei.