Obamagate: il sospetto che Obama spiasse Trump
Negli Usa Donald Trump accusa l’ex presidente Barack Obama di aver cospirato contro la sua amministrazione, nelle ultime due settimane di transizione alla Casa Bianca. La chiusura del caso Michael Flynn può aprire l’Obamagate. L'anno iniziato con il tentativo di impeachment di Trump sta evolvendo in modo imprevedibile
Negli Usa è scontro presidenziale: Donald Trump accusa l’ex presidente Barack Obama di aver cospirato contro la sua amministrazione, nelle ultime due settimane di transizione alla Casa Bianca. La chiusura del caso Michael Flynn può aprire l’Obamagate.
Il generale Michael Flynn, vittima del caso Russiagate (il sospetto che Trump fosse aiutato dalla Russia nella campagna del 2016), ora ne è uscito pulito. Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha chiesto di far cadere le accuse contro di lui. Non era un agente che lavorava per i russi, non lo si può accusare di aver mentito a un pubblico ufficiale, perché l’interrogatorio su cui si basano le accuse, avvenuto il 24 gennaio 2017, non era corretto, con il chiaro intento (reso esplicito in una nota scritta) di indurre l’interrogato a mentire. Adesso, in compenso, si fa luce su chi ha ordinato quell’interrogatorio e tutta l’indagine. Perché c’è il sospetto, sempre più fondato, che a voler incastrare la nuova amministrazione, non ancora insediata, fosse lo stesso ex presidente Barack Obama, ancora in carica. Se dovesse emergere questa realtà, sarebbe peggio del Watergate, lo scandalo che pose fine alla presidenza di Richard Nixon, perché nel 1972 spiava la Convention Democratica durante la campagna elettorale.
Come si può immaginare, l’account di Twitter di Donald Trump, negli ultimi giorni, era bollente: “Il più grande crimine politico nella storia americana”. “Nelle sue ultime settimane in carica (Obama, ndr) ha cercato di colpire i funzionari in arrivo e sabotare la nuova amministrazione”. “Il dipartimento di giustizia dell’amministrazione Obama è stato una vergogna, un tradimento. È un tradimento”. Quali sono gli elementi emersi per accusare l’amministrazione uscente di tradimento? La prima è la stessa serie di prove che hanno portato alla richiesta di assoluzione di Flynn, di cui si è già parlato su queste colonne. Di fatto è emersa la chiara volontà, da parte dell’Fbi, di incastrare l’indagato, a tutti i costi, pur non riuscendo a dimostrare che l’allora Consigliere per la sicurezza nazionale fosse colluso con i russi. Ci sono prove scritte che il caso fosse già considerato chiuso il 4 gennaio del 2017. Però il giorno stesso un messaggio dell’agente Peter Strzok, lo stesso che poi andò a interrogare il generale, chiedeva di tenere aperta l’indagine ugualmente e faceva chiaramente intendere che la richiesta provenisse dal “7mo piano”, quello degli uffici dei vertici dell’Fbi: l’allora direttore James Comey e il suo vice Andrew McCabe.
Ora si sa anche che il 5 gennaio, il giorno dopo, James Comey si sia incontrato a porte chiuse nello Studio Ovale della Casa Bianca con lo stesso presidente Obama, assieme al vicepresidente Joe Biden (attuale candidato democratico alla Casa Bianca), alla Vice-procuratrice generale Sally Yates, al direttore della Cia John Brennan, al direttore dell’Intelligence Nazionale James Clapper alla Consigliera per la sicurezza nazionale Susan Rice. In una mail di quest’ultima si descrive a grandi linee il tema della discussione e apprendiamo che Obama abbia chiesto a Comey di tenerlo informato sugli sviluppi dell’indagine sulla campagna di Trump e sui suoi presunti legami con la Russia e abbia discusso sull’opportunità o meno di metterne al corrente la nuova amministrazione. Evidentemente, la conclusione fu quella di mantenere il massimo riserbo.
Il 6 gennaio, l’allora direttore dell’Fbi espose a Trump alcuni dettagli del dossier britannico redatto da Christopher Steele, sui presunti legami fra la campagna elettorale di Trump e la Russia di Putin. Il rapporto Steele già allora appariva come poco credibile, essendo redatto sulla base di fonti anonime e con informazioni non verificabili. Nei due anni successivi di indagine Russiagate, si è rivelato poco o per nulla utile (se non per ribadire che Putin, nel 2016, preferisse una vittoria di Trump a quella della Clinton). Tuttavia, lo stesso direttore dell’Fbi non disse nulla al futuro presidente, in fase di insediamento, sulle indagini più importanti, soprattutto quella sul generale Flynn.
Questa volontà deliberata di non rivelare nulla alla nuova amministrazione, come sostiene il quotidiano conservatore The Federalist, è uno degli aspetti più sospetti di tutta la vicenda. Perché mai non fare rapporto al nuovo presidente sulla presenza di presunte spie straniere nella sua amministrazione? Era in gioco la sicurezza della nazione, non era più campagna elettorale. Eppure, secondo la testimonianza rilasciata dall’allora vicedirettore del controspionaggio dell’Fbi, Bill Priestap, le informazioni sulle indagini in corso non potevano essere condivise. Durante la campagna elettorale, nell’estate 2016, perché: “Se noi avessimo fatto rapporto a qualcuno della campagna di Trump, avremmo messo in allerta lo staff della campagna sull’oggetto della nostra indagine e se qualcuno della campagna avesse avuto legami con i russi, avrebbe certamente cambiato tattica o altrimenti avrebbe cercato di coprire le sue attività, impedendoci di trovare la verità”. Ma dopo la fine della campagna elettorale?
Quando Trump venne proclamato vincitore, il 9 novembre, l’Fbi aveva già identificato quattro individui sospetti, quindi sapeva eventualmente a chi non rivelare le informazioni, ma non ha detto nulla a Trump. Né lo ha fatto dopo l’insediamento, anche se a questo punto si sarebbe trattato di rivelare al nuovo presidente la possibile presenza di una talpa all’interno della sua amministrazione. E di più: l’indagine su Carter Page, ex consigliere di Trump sulla politica estera, è continuata fino all’estate inoltrata del 2017, per il sospetto (rivelato da comunicazioni declassificate) che avesse “contatti con i vertici della Casa Bianca”. Quindi, perché non comunicare al presidente la possibile presenza di una minaccia interna? Per tutti quei mesi? Forse perché si presumeva che lo stesso presidente fosse una spia? Era lui, infine, che si voleva incastrare? Dalla dinamica di quelle indagini, si potrebbe pensarlo.
Barack Obama si è sentito in dovere di intervenire sul caso Flynn, alla fine della settimana scorsa e in questo ha rivelato un notevole nervosismo. Saputo che il Dipartimento di Giustizia ha chiesto di far cadere le accuse contro il generale, ha detto ad ex colleghi dell’amministrazione: “Il fatto è che non ci sono precedenti per qualcuno che viene accusato formalmente di spergiuro e poi si vede ritirare le accuse. È una di quelle cose che ti fanno preoccupare perché è a rischio la nostra comprensione delle basi dello stato di diritto. E quando cominci a muoverti in questa direzione, le cose possono accelerare all’improvviso. L’abbiamo già visto altrove”. Il quotidiano Wall Street Journal si chiede perché Obama, di professione avvocato, pur sapendo che le sue parole sarebbero state pubblicate, abbia sbagliato anche a citare l’accusa a Flynn, che non era di “spergiuro” (mentire dopo un giuramento nel corso di un processo), bensì falsa testimonianza. Lo stesso quotidiano si chiede il perché di questo intervento non necessario e lessicalmente scorretto di un ex presidente. “Di cosa dovrebbe essere preoccupato”, Obama? Segue un elenco di scorrettezze commesse durante l’indagine Russiagate, fra cui la violazione (grave) delle regole che prevedono di fornire ai difensori le prove che potrebbero discolpare gli accusati, mentre invece l’accusa se le è tenute fino a pochissimo tempo fa.
Ne vedremo ancora delle belle. Ieri Richard Grenell, nuovo direttore dell’Intelligence Nazionale ha annunciato che pubblicherà i nomi dei membri dell’amministrazione Obama che hanno chiesto di “smascherare” l’identità di Michael Flynn. Sarebbe un elemento in più per comprendere cosa successe in quell’autunno caldissimo del 2016. Questo 2020, iniziato con il tentativo di impeachment di Trump, sta evolvendo in modo imprevedibile.