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LA MACCHINA MEDIATICA DI FRONTE AL SISMA

Nuovi impacciati cronisti alla prova dei fatti

L’elemento emozionale è essenziale in una cronaca ma dovrebbe trattarsi di un racconto del reale. Ed è proprio questo che manca nel giornalismo di oggi: le dirette radiofoniche risentono di una deriva emotivo-sentimentale. Non basta cavarsela con “qui è tutto distrutto” e “sentite le pale degli elicotteri”.

Cronaca 25_08_2016

“E non azzardarti a tornare senza la foto del morto”. Il ringhio del capocronista, quasi sempre avvolto in un nube di fumo di sigaretta, echeggia ancora nelle orecchie di chi ha abbastanza anni per aver fatto la gavetta giornalistica nell’era in cui di digitale c’erano solo i tasti di una Olivetti. Ed è un ringhio che torna alla mente leggendo e soprattutto ascoltando il lavoro di tanti colleghi di oggi, catapultati sul fronte del terremoto.

Sì, perché la “foto del morto” era il battesimo del fuoco prima e il calvario poi del cronista alle prese con l’incidente stradale, la disgrazia in montagna o al mare, il malore improvviso e fatale. Tolti i rari casi di personaggi pubblici o semi-tali – bastava essere un consigliere di quartiere – per i quali soccorreva l’archivio, toccava bussare alla porta della famiglia, porgere le condoglianze, dimostrare umanità e, di solito, usare il pietoso ma dignitoso espediente del “… era molto conosciuto e agli amici farà piacere che il giornale lo ricordi anche con un’immagine”. Si tornava di corsa in redazione a volte con una stampa a colori 13 x 8 del poveretto in spiaggia, a volte con la sua tessera di qualche club o addirittura con la patente, che a pubblicazione avvenuta ci si curava immancabilmente di restituire.

Era, insomma, uno dei tanti bagni di realtà che il giornalismo di allora somministrava e che oggi purtroppo mancano sempre di più agli incolpevoli colleghi. I quali sono normalmente costretti da un meccanismo mediatico geneticamente modificato a trascorrere le giornate lavorative smanettando di copia-incolla di agenzie, scrutando monitor e, soprattutto, inseguendo tweet e post della starlette e/o del premier. 

Nulla di diabolico, intendiamoci, non siamo luddisti. Ma la realtà di tanto in tanto gioca lo scherzo di ricordare la propria esistenza, magari con lo scricchiolio di una faglia e allora il povero giornalista è (giustamente e finalmente) catapultato nel mondo reale. Non si vuole qui parlar male di colleghi che in queste ore hanno scarpinato tra crolli, macerie e drammi. Si vuol solo notare, con rammarico, che in queste occasioni si vede per molti – non per tutti – la drammatica assenza di quel tipo di gavetta, quella della “foto del morto”.

Usciti dal mondo virtuale e volatile dei post e dei commenti e paracadutati nella polvere e tra i pianti di una tragedia vera, troppi sono disarmati, mancano letteralmente delle parole e della sintassi (le “armi” di noi giornalisti), si rivelano al più capaci di intercettare e ritrasmettere emozioni ma non informazioni. E si dimostrano infettati dal virus molto internettiano dell’opinionismo che decolla dal sentito dire e per il quale la parola “verifica” è inutile e ingombrante zavorra.

Inchiodati per giorni a fare didascalie sul nulla delle opinioni, si trovano paradossalmente impacciati e bloccati quando si tratta di descrivere semplicemente dei fatti, e che fatti.

Chi nelle prime ore di ieri avesse seguito le dirette radiofoniche sulle varie reti avrebbe avuto molte prove di questa deriva emotivo-sentimental-superficiale. Ne fanno parte l’uso - ormai insopportabile in tutti i contesti - di espressioni bolse e logore (“la macchina dei soccorsi”, “il paese è in ginocchio”), l’abuso di locuzioni che denotano ignoranza (“si scava a mani nude” detto con il tono di scandalo di chi non sa che non è certo con le ruspe che si salvano i sopravvissuti sepolti), l’invito affannato a sentire “il rumore degli elicotteri”. A coronamento e apparente correzione del turbine emotivo, poi, arriva il richiamo perentorio del conduttore in studio (e del caporedattore della carta stampata) che chiede “il bilancio”. 

Questa del bilancio, se non fosse una tragedia sarebbe una farsa. Ancora non si è posata la nube di polvere del sisma e tutti chiedono, propongono, annunciano, correggono, aggiornano un dato che – lo dice la parola stessa – si fa alla fine. Qualcuno se ne rende pudicamente conto e aggiunge l’aggettivo “provvisorio”. Insomma, in un gioco di specchi di emozioni e sensazioni ci si aggrappa all’unico dato oggettivo che… non è e non può ancora essere disponibile. E infatti, in poche ore e come si poteva arguire stando ai dati di realtà – terremoto notturno, paesi con edifici vetusti, frazioni isolate… - tutti i “bilanci” delle prime ore sono stati terribilmente spazzati via.

Ora, è evidente che l’elemento emozionale, di coinvolgimento, è essenziale in una cronaca ma, appunto, dovrebbe trattarsi di una cronaca, di un racconto del reale. Ed è proprio questo che manca sempre di più nel giornalismo di oggi e questa mancanza emerge con maggiore evidenza, come si diceva, nei momenti in cui l’impatto con la dura realtà non è più evitabile; quando il reale ti investe con la sua rocciosa solidità.

Rarissimi gli inviati che, nelle dirette in voce, video o via social, raccontavano ciò che vedevano, svolgendo così la funzione di essere occhi e orecchi di ascoltatori e lettori. Come è fatta Amatrice, dove si trova Accumoli? Sono su un colle? In una valle? Le case erano vicine tra loro o lontane? Basse o alte? In pietra o in mattoni? Vie e vicoli sono in piano o in pendenza? Fa caldo o fa freddo? E quella piazza in cui ti trovi è quadrata, alberata, asfaltata? Quanta strada hai fatto a piedi per essere lì? Ci sono boschi o prati attorno? Quanta gente vedi attorno a te? Ci sono frazioni distanti dal centro? E quante sono? Quanti residenti ha il paese? E quanti possono essere i residenti temporanei (siamo in estate) e i turisti? E poi c’è una bella differenza tra una casa rasa al suolo e una in cui è venuto giù un camino e un cornicione: non devi cavartela con “qui è tutto distrutto” e “sentite le pale degli elicotteri”.

Oggi la “foto del morto” la si scarica da uno dei suoi profili social e nessuno rimpiange i tempi delle Olivetti inceppate e dei telefoni a gettone da cui si dettavano i pezzi. Ma stare attaccati alla realtà consumando le scarpe più che i trackpad resta una buona norma per non finire schiacciati sotto quella definizione che, sempre ringhiando, sibilava il solito capocronista: “Signorino, se continui così finirai per dare ragione a chi dice che il giornalista è un tale che spiega agli altri quel che non ha capito lui”.