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DIPLOMAZIA

Nucleare iraniano, fine di un trattato che era già morto

L'Iran, come prima rappresaglia per l'uccisione del generale Soleimani, annuncia che non rispetterà più i vincoli del Jcpoa, il trattato sul nucleare di Teheran. Di fatto riprende la corsa all'atomica. Tuttavia si tratta dell'ultimo chiodo nella bara di un trattato internazionale (voluto da Obama e dall'Ue) già morto nel 2018.

Esteri 07_01_2020
Missili balistici iraniani in parata

Teheran, mentre centinaia di migliaia di persone celebravano i funerali solenni del generale Soleimani (ucciso in un raid statunitense, a Baghdad), la diplomazia iraniana annunciava un altro funerale: quello dell’accordo sul nucleare del 2015. L’Iran non si ritiene più vincolato sul trattato ed ha annunciato di riprendere una parte essenziale del suo programma: l’arricchimento dell’uranio, potenzialmente utile per la produzione di testate nucleari.

Noto con l’acronimo internazionale di Jcpoa, era stato siglato a Vienna, garantito dall’Ue, promotore principale assieme all’ex presidente Barack Obama. Il trattato mirava a sgonfiare la crisi sul nucleare iraniano, iniziata nel 2002 quando venne scoperto, grazie ai dati forniti da dissidenti interni, un programma segreto della Repubblica Islamica, gestito direttamente dalla Guardia Rivoluzionaria. Ufficialmente Teheran lo giustifica come un programma civile, per aumentare la produzione elettrica. Ma né i Paesi che potrebbero essere bersaglio di un eventuale arsenale nucleare iraniano (Israele, principalmente, ma anche l’Arabia Saudita), né la comunità internazionale, hanno mai creduto a questa tesi. Varie tornate di sanzioni internazionali sono state imposte all’Iran per indurlo a scendere a patti.

Nel 2015, il Jcpoa doveva fornire la garanzia che il programma iraniano fosse solo ad uso civile e non militare. In cambio della fine delle sanzioni economiche internazionali, la Repubblica Islamica si impegnava a ridurre le sue scorte di uranio “arricchito” a 300 kg, almeno fino al 2031, e ridurre il livello di arricchimento fino al 3,67%, insufficiente per la produzione di testate. Secondo l’accordo, i tecnici iraniani avrebbero dovuto interrompere del tutto, sempre fino al 2031, il processo di arricchimento nel sito sotterraneo di Fordo (l’ultimo ad essere scoperto dagli Usa e poi ammesso da Teheran).

Nel 2018 gli Usa si sono ritirati unilateralmente dal Jcpoa. Non solo perché è cambiato presidente, ma anche perché sono cambiate le circostanze. L’Iran, dopo la sconfitta dell’Isis (contro cui Usa e Iran erano sostanzialmente allineati), era diventato già molto più aggressivo su tutti i fronti in cui erano impegnate le milizie sciite sue alleate, in Siria, Iraq, Yemen soprattutto. Ma a determinare definitivamente il cambio di rotta americano è stata la più grande operazione di intelligence israeliana di inizio secolo: più di 100mila documenti segreti iraniani rubati dagli agenti segreti del Mossad rivelavano che l’Iran fosse in mala fede, prima e durante le trattative con Usa e Ue. La parte militare del programma, ufficialmente interrotta da più di un decennio, continuava segretamente.

Ritirandosi dal Jcpoa, l’amministrazione Trump ha alzato la posta in gioco per poter tornare, eventualmente, al tavolo delle trattative: non solo l’Iran avrebbe dovuto dimostrare la sua buona fede nel rispetto dell’accordo sul nucleare, ma scendere a patti anche sul suo programma militare missilistico e interrompere il sostegno e il finanziamento delle milizie filo-iraniane in tutto il Medio Oriente (la politica gestita dal defunto generale Soleimani). Nel frattempo, gli Usa hanno imposto di nuovo le sanzioni economiche all’Iran. Con gravi danni alla sua economia. L’Ue non ha più imposto nuove sanzioni, ma la possibilità di finire nella lista nera americana rende molto difficile, anche per le aziende europee, continuare a commerciare con le controparti di Teheran.

Da questa rottura, Teheran e Washington, e relativi alleati regionali, si sono combattuti in una guerra asimmetrica a bassa intensità, mai dichiarata. L’uccisione di Soleimani, in risposta agli attacchi al personale americano in Iraq, è solo l’ultimo scambio di colpi. In questo contesto il Jcpoa poteva considerarsi già morto.

A dire il vero, l’Iran già non lo stava rispettando da almeno sette mesi. In maggio, infatti, Teheran aveva annunciato (in risposta alle sanzioni americane) che avrebbe superato il limite dei 300 kg di uranio arricchito previsti dal trattato. A luglio, dopo i primi sabotaggi contro il petrolio saudita e il conseguente aumento della presenza militare americana nel Golfo, l’Iran ha sfondato un altro limite: ha ricominciato ad arricchire l’uranio fino al 4,5%, quasi un punto in più rispetto al consentito. A settembre, poi, ha installato nuove centrifughe per l’arricchimento dell’uranio e due mesi dopo, a novembre, anche il centro di Fordo ha ripreso la sua attività di produzione (e non solo di ricerca). Da notare come l’Ue, garante di questo accordo, non sia assolutamente riuscita a far tornare l’Iran sui suoi passi in tutto questo periodo, mentre gli Usa, stimolati da questi sviluppi, mantenevano la presa con sanzioni economiche dure.

Se il trattato era già morto, cosa cambia con l’annuncio di sabato? Teheran non si ritiene più vincolato, né sul numero di centrifughe che può installare e utilizzare, né sul limite dell’arricchimento dell’uranio e della sua quantità prodotta. Secondo le stime di intelligence più pessimistiche, potrebbe produrre abbastanza materiale fissile per una bomba atomica in meno di sei mesi. Le conseguenze si possono solo immaginare.