Notturno numero 2
Ognuno ha un'immagine che racchiude il senso di una vacanza e che vuole condividere. I social brulicano di panorami montani, tramonti marini e spaghetti alle vongole mostrati trionfanti su corpi abbronzati e accaldati. La mia immagine di vacanza è buia. Nelle quasi 70 miglia che separano il golfo di La Spezia da Cap Corse di buio ce n'è tanto, soprattutto dopo che si lascia alla propria sinistra la Gorgona e il bagliore della costa livornese viene nascosto. E' in quel momento che davanti a me, sotto di me e sopra di me si apre la vastità dell'eterno.
La barca a vela procede silenziosa coi suoi 6 nodi costanti, dorme l'equipaggio sotto coperta strinato dal caldo del giorno appena trascorso e io sono di guardia in pozzetto. Non c'è molto da fare. Il pilota automatico tiene la rotta, bisogna soltanto controllare che il vento non cambi, che le vele rimangano gonfie e di non entrare in collisione con uno dei traghetti che fanno la spola tra Bastia e Marsiglia, Nizza o Genova. C'è spazio per pregare e per invocare il dio sonno perché non mi faccia cadere in acqua come Palinuro.
Ed è lì, nel silenzio del vento rotto solo dal mare che si infrange sullo scafo che il mio ozio notturno si fa culto. Intorno a me - se si esclude la barca sulla quale sono - non c'è nulla di costruito da mano d'uomo. Il mare è un mantello ovattato e l'orizzonte si perde nelle tenebre. Il cielo stellato è incandescente, poter distinguere nitidamente la Via lattea è ormai un privilegio per noi uomini delle civiltà industrializzate occidentali. E qui di Via lattea ce n'è parecchia, le costellazioni sono finalmente visibili così come gli antichi le avevano disgnate con la loro astrusa fantasia. Il Carro minore è proprio una miniatura rovesciata del più celebre fratello maggiore, la costellazione dello scorpione è così evidente nel quadrante sud-ovest da risultare scontata. La W di Cassiopea e la Corona boreale si stagliano nel cielo permettendoti di riconoscere finalmente il vicino Ercole. Domina al centro della scena la non-costellazione del triangolo estivo, un triangolo equilatero perfetto composto da Deneb, Altair e Vega. E poi ci sono miriadi di stelle cadenti che solcano la volta stellata, fiammiferi volanti in così grande quantità e appaganti che ti convinci dell'inutilità il 10 agosto di startene a testa all'insù ad aspettarne una solo nell'afosa pianura padana.
E' la panthalassa, l'immenso e unico oceano che avvolgeva la terra quando la pangea formava un solo grande continente e le acque dominavano sul mondo. Secondo la teoria della deriva dei continenti, ma anche nella Genesi di tutto, di quando le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Di quello spirito c'è traccia nell'irregolare, ma puntuale, frangersi delle onde che superando il parabordo rimasto sul ponte rimbalzano spruzzi che irrorano le gambe infreddolite dalla notte scura e senza luna lasciandole appicicaticcie di acqua salmastra.
E' un momento unico e irripetibile, un privilegio di ancestrale bellezza concesso a me, che tutto l'anno faccio su e giù dal treno condividendo il posto con una caotica umanità ogni giorno diversa e uguale a me: sempre di corsa, sempre indaffarata, sempre distratta. Eppure, c'è stato un tempo nel quale tutto questo era l'unica visione del mondo, un tempo remoto in cui quest'acqua e questo cielo stellato sono stati l'unica prospettiva e l'unico approdo possibile. Com'è che ad un certo punto da questa acqua e da questo cielo è spuntata, poi, la vita? E da questo anche io? E' così difficile immaginare che da una inospitale ed eterna condizione possa germogliare il primo vagito di un essere cellulare vivente. Eppure è stato così e io mi rendo conto che sto facendo un viaggio a ritroso nel tempo andando a immergermi in quel brodo primordiale del mare stellato che ha segnato l'inizio di tutto, o per lo meno dopo che il logos ha mosso il suo motore.
Un viaggio nel tempo eterno, accompagnato da domande e sensazioni tra le più variegate. Non c'è solitudine, non c'è nemmeno il timore di essere aggredito improvvisamente da un tritone che sbuca dall'acqua. C'è molta pace. C'è la quiete della natura nell'acme della sua inospitalità.
E soprattutto c'è una domanda di senso che mi attanaglia. Questa: se sto viaggiando nel tempo anche le stelle devono essere per forza inserite dentro questo tempo. Ma io quale parte della loro vita sto guardando adesso? Se la loro luce arriva a me dopo aver percorso un viaggio lunghissimo, così distante da misurarlo in anni luce, chi mi dice che questo brillìo scintillante che vedo adesso, in realtà non sia altro che l'ultimo fascio di luce di una stella, di mille stelle, di milioni di stelle che adesso potrebbero essere già spente?
Se la luce che io sto guardando in questo momento è soltanto un messaggio nella bottiglia partito anni luce fa da me e arrivato soltanto adesso, l'universo potrebbe - almeno in linea teorica - essere già spento? E il sole che tra pochi minuti tornerà a riaffacciarsi spuntando a est dalla sagoma di Capraia potrebbe essere l'unica stella rimasta in cielo per accendere la scintilla della vita solo a noi qui sulla terra, vertice della creazione e del cosmo?
Mentre le domande leopardiane si affastellano, la prua ondeggiante lascia intravedere una nuova luce. Intermittente ma nitida: il faro della Giraglia arriva a prendermi prima che sia troppo tardi e inizia a guidarmi verso il ritorno al mio mondo, strappandomi lentamente da quella tenebra primordiale abbacinante nella sua oscurità. Sia la luce, e la luce fu. Quella che adesso, di questo sono certo, non è spenta.