REPORTAGE
Norvegia, il prezzo della pacifica convivenza
Dopo la tragedia una nazione intera si interroga sul modello di società "aperta", un sistema che oggi sembra non garantire la sicurezza dei cittadini.
Attualità
26_07_2011
La figura dell’eroico poliziotto Trond Berntsen che affronta disarmato il pluriomicida Anders Behring Breivik per impedirgli di continuare il massacro dei giovani socialdemocratici partecipanti al raduno estivo sull’isola di Utöya diventa il simbolo della Norvegia, questa nazione ai limiti del polo, così arcana e felice, popolata di gente operosa, silenziosa e benestante, appartata ma ugualmente partecipe degli impegni comuni del mondo occidentale, tranquilla, ma coraggiosa mediatrice in sede internazionale, dove la “società aperta”, garantita da una solida democrazia, rifiuta di trincerarsi dietro barricate antiterroristiche e cordoni di polizia armati fino ai denti.
Si è detto che l’autore della strage abbia potuto agire indisturbato perché la polizia norvegese è disarmata. Ciò non è vero. Gli agenti di servizio portano tutti la pistola d’ordinanza, ma Trond, fratellastro della principessa ereditaria Mette Marit, si trovava sull’isola, usufruendo delle ferie, in qualità di sorvegliante volontario, insieme con il figlioletto di dieci anni, e credeva di poter ridurre alla ragione il forsennato sparatore, affrontandolo in modo deciso e convincente com’era solito fare con i ragazzi troppo vivaci. Si è criticata la polizia norvegese anche per la lentezza con cui sarebbe intervenuta dopo che era stato dato l’allarme, all’iniziio della sparatoria. In questo caso, dobbiamo dirlo, gli agenti armati diretti all’isola di Utöya sono stati perseguitati dalla sfortuna manifestatasi con un motore marino che, a metà tragitto, si è fermato per cause ignote, riprendendo a funzionare soltanto dopo estenuanti, ripetuti tentativi. Ma, a parte la “panne” del motoscafo, l’assenza di guardie armate nella sede del convegno dei giovani labouristi e la mancanza di reparti di urgente intervento per situazioni pericolose rispecchia l’anima norvegese che respinge l’idea di doversi premunire contro mostri sanguinari pronti a seminare la morte fra gli avversari politici.
Il prezzo pagato per questa civilissima interpretazione della convivenza pacifica in un regime democratico è stato altissimo, quasi inimagginabile, e la ferita inferta a tutto il popolo norvegese con una strage che ha praticamente cencellato una generazione di futuri leader politici, arrivando addirittura al cuore della casa reale, è tale da essere difficilmente rimarginata. Ma in mezzo alla disperazione, al dolore e alla costernazione, echeggiano le parole del primo ministro Jens Stoltenberg che dice: “Il paradiso della mia gioventù è stato trasformato in un inferno. Questo attacco alla Norvegia deve essere però affrontato con maggiore, e non minore, apertura democratica. I giovani politici devono poter continuare ad incontrarsi senza essere circondati da nugoli di poliziotti o da misure di sicurezza, sentendosi ugualmente tranquilli e sereni. Sono questi i valori che la Norvegia deve conservare e difendere.”
E’ encomiabile la serenità, la composta tristezza con cui gli abitanti di Oslo stanno sopportando la tragedia. Il duomo della capitale norvegese abbaglia con le sue migliaia di candele accese fra un mare di fiori. Si odono pianti sommessi di congiunti ed amici delle vittime. Ma nessuno intende cedere a chi vorrebbe “punire” questa nazione votata alla giustizia sociale, al benessere collettivo, all’accoglienza dei diseredati provenienti da altri paesi. Ci sono gruppi ultranazionalisti e razzisti fra i quali potrebbero annidare altre teste calde come il Breivik, ma la Norvegia non vuole armarsi contro potenziali terroristi. Fida nel proprio sistema aperto di dialogo e di comprensione. Ma ciò può bastare oggi a garantirne la siurezza?