"Non serve": vescovi francesi contro la Messa in latino
I vescovi francesi hanno reso nota la sintesi dei risultati sulla consultazione relativa all'applicazione del Summorum Pontificum chiesta dalla Cdf. Ma il testo non è chiaro sulle posizioni dei singoli vescovi né sulle risposte. Si insiste sul gettare ombre sui gruppi tradizionalisti e si auspica in futuro una ghettizzazione della Messa in latino. Uno stravolgimento del motu proprio voluto da Benedetto XVI.
La Conferenza Episcopale Francese ha reso nota la sintesi dei risultati sulla consultazione relativa all’applicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, richiesta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nell’aprile dello scorso anno a tutti i vescovi del mondo.
Ci si domanda quali ragioni abbiano determinato la scelta della CEF di presentare alla Santa Sede una sintesi delle risposte degli 87 vescovi transalpini (5 non hanno inviato la risposta), anziché le singole comunicazioni; opzione preferita anche dai confratelli italiani. Quando si va a leggere il testo, se ne comprende la ragione. Onestà vorrebbe che la Santa Sede – ed anche il lettore – potesse avere contezza delle singole posizioni, anche per poter meglio inquadrare risorse e problemi. Ma pare che sia esattamente quello che l’anonimo estensore intende evitare, per dare la sensazione che questi gruppi di tradizionalisti siano sostanzialmente e complessivamente un disastro.
Prendiamo un’affermazione come questa: «Molti vescovi si interrogano sulla stessa nozione di “bisogno pastorale” e di “gruppo stabile” [...]. In circa due terzi delle diocesi che hanno risposto, il vescovo ritiene che la proposta della celebrazione secondo la Forma Straordinaria del Rito Romano (FSRR) riguardi un vero bisogno pastorale. Ciononostante, ricorre spesso una frase: “La Forma straordinaria risponde all’aspettativa di qualcuno più che a un vero bisogno pastorale”». Due terzi dei vescovi, mica quattro gatti, dunque, comprende la necessità pastorale di avere celebrazioni secondo la forma straordinaria nelle proprie diocesi. Questo è il dato, ma l’estensore mette subito le mani avanti per dire che molti vescovi non hanno capito cosa sia questo bisogno pastorale e che spesso ricorre il dubbio che si tratti di venire, in realtà, incontro alla semplice aspettativa di qualcuno. La disonestà intellettuale è evidente: quanti sono questi “molti” vescovi e come quantificare quello “spesso”?
Poco oltre, stessa musica: «Molti vescovi notano che le celebrazioni secondo la FSRR possono portare ad un formalismo rituale e bloccare una riflessione di fede. Molto spesso essa rafforza coloro che la frequentano in un individualismo e in uno spirito di cappella (rete)». “Molti”, “molto spesso”, “altri”: chi sono? Quanti sono? Con questa scelta di utilizzare aggettivi indefiniti, si forza l’idea che i frequentatori delle Messe in rito antico siano in gran parte individualisti, formalisti, superficiali, etc.
Un altro aspetto problematico della sintesi riguarda le considerazioni dei sopracitati “molti vescovi” sui fedeli che frequentano i centri di Messa vetus ordo. Notare di nuovo la volontà di non quantificare e identificare: «Un buon numero di comunità che celebrano nella FSRR non nascondono le loro critiche e la loro diffidenza nei confronti del Concilio Vaticano II e dei suoi orientamenti. Esiste un problema ecclesiologico soggiacente al Motu Proprio. Non si dovrebbe dimenticare l’insegnamento morale della Chiesa, fino ad Amoris Laetitia». Ancora più sconcertante è quest’altra osservazione: «La gioventù fragile e identitaria è facilmente affascinata dalla FSRR. Essa viene rafforzata nella sua sindrome d’assediamento da predicazioni mediocri e da reti sociali che impoveriscono la riflessione e confortano i giovani nelle loro idee e nei loro eccessi». Già finito il tempo del “chi sono io per giudicare”?
Ad ogni buon conto, i fedeli sono liberi di rivolgere critiche circostanziate e rispettose a quei punti del Vaticano II – e non solo – che possono sollevare difficoltà. Ma non è questo il punto. Vorremmo chiedere alla CEF se abbiano mai provato a verificare se problemi ecclesiologici e smemoratezza dell’insegnamento morale della Chiesa non siano magari presenti anche nei fedeli che frequentano la Messa nella Forma ordinaria. Se tra questi fedeli non ve ne siano magari una discreta quantità che ritiene legittima la convivenza prematrimoniale, che difende l’uso dei contraccettivi, che contesta l’indissolubilità del matrimonio, o, per venire ai problemi ecclesiologici, se non siano molti ad essere convinti che cattolici, ortodossi o protestanti, l’importante è avere fede, e via discorrendo. Se dunque «alcuni vescovi si interrogano sulla reale comunione di questi fedeli con la Chiesa cattolica», dovrebbero fare lo stesso anche per gli “altri” fedeli. O le pulci devono essere sempre fatte da una sola parte?
Stessa disparità di trattamento si nota nella feroce critica verso quei sacerdoti, in particolare della Fraternità San Pietro, che rivendicano la celebrazione esclusiva secondo il Rito antico. Questa scelta è ritenuta «causa di scandalo», mentre il disprezzo di molti sacerdoti verso la forma straordinaria e il conseguente rifiuto di celebrarla o di farla celebrare, come dobbiamo intenderlo? Come un segnale di attenzione pastorale?
Anche l’affermazione che, sempre secondo i non quantificabili e anonimi “alcuni vescovi”, l’opportunità di partecipare alla FSRR «non fa altro che mantenere i fedeli all’interno di una concezione ecclesiale singolare (rigetto del Concilio, critica di Papa Francesco, esplicita ostilità verso la Chiesa, ...)», appare decisamente tendenziosa. Quanto alla critica all’attuale Pontefice, possono stare tranquilli: ve ne è in abbondanza anche tra i fedeli della Forma Ordinaria...
Di fronte alla quasi totalità che ritiene che l’applicazione generosa del Motu Proprio abbia portato di fatto ad una pacificazione interna, l’estensore si sente subito in dovere di citare un vescovo (su 87!), secondo il quale il Motu Proprio, pur avendo portato ad una pacificazione, però «non è stato in grado di far crescere la comunione». Domanda: questo è il compito di un Motu Proprio o di un vescovo?
Le considerazioni sull’arricchimento reciproco delle due forme sono rivelative. Generalmente si ritiene che non siano stati adottati aspetti della forma straordinaria, eccetto che «elementi marginali», come, per esempio, «un maggior uso del latino nell’ordinario e in generale nei canti». Forse non se ne sono accorti, ma questo significa che la FSRR ha favorito l’adempimento delle indicazioni conciliari presenti in Sacrosanctum Concilium 36 e 54; stai a vedere che l’anticonciliarismo tanto stigmatizzato sia invece un’opposizione al fantomatico “spirito del Concilio”? Altro «elemento marginale» rilevato è l’utilizzo del piattino per la Comunione. E anche in questo caso, la FSRR ha in realtà positivamente aiutato nell’applicazione di una norma ritenuta necessaria da Redemptionis Sacramentum, 93.
Anche di fronte alla sottolineatura, da parte di una decina di vescovi, di «una disciplina e un’attenzione accresciuta nella celebrazione della forma ordinaria da parte di un buon numero di sacerdoti (maggior fedeltà alle rubriche)», subito il documento solleva il dubbio di non precisati vescovi, i quali «si chiedono se non si tratti piuttosto di una questione di generazione che non di influenza della FSRR». Insomma, in questa sintesi tendenziosa i nei diventano dei buchi neri, mentre i lati positivi vengono ridotti a mere quisquiglie, neppure riconducibili alla FSRR. Al punto tale che nonostante questi arricchimenti ci siano e siano stati espressi, l’estensore decide di ignorarli nella sua sintesi conclusiva: «La constatazione globale è che noi osserviamo due mondi che non si incontrano. Non si rileva alcun mutuo arricchimento. Quando sono stati introdotti degli elementi nella forma straordinaria, diventano piuttosto motivi di tensione che di arricchimento».
L’atteggiamento complessivo della CEF nei confronti della forma straordinaria è ben riassunto da questa messa in guardia conclusiva: «Essere vigilanti a non estendere la FSRR per non indurre una comprensione erronea del posto di questa forma, che potrebbe finire per essere considerata come un rito». Quando dei fedeli si sentono a mala pena tollerati ed avvertono nei loro pastori il desiderio che non si diffondano, a chi si deve la responsabilità del fatto che «il fine dell’unità della Chiesa non è stato pienamente rispettato nella messa in atto del Motu Proprio»?