Non mi candido più, ma se sono indispensabile...
Sia su un fronte che sull’altro il rinnovamento della classe dirigente rimane una chimera. Il centrodestra e il centrosinistra dimostrano di non voler adottare meccanismi trasparenti e meritocratici per la selezione dei candidati. Quest’andazzo delegittima sempre più la politica partitica, spingendo l’elettorato verso un movimentismo extrapartitico dagli sbocchi incerti.
Nei conciliaboli in Transatlantico e nelle cene più o meno “carbonare” a Trastevere non si discute di manovra finanziaria, di disoccupazione giovanile, di immigrazione o di altri temi che dominano l’agenda politica ufficiale. Parlamentari ed esponenti di partito stanno già negoziando le candidature per le prossime elezioni politiche, e si cimentano in simulazioni in base al sistema elettorale attuale e a quello che potrebbe uscire da un’eventuale riforma che assegni il premio di maggioranza non alla lista più votata ma alla coalizione vincente.
Ma a tremare in questi mesi di trattative serrate sono soprattutto i veterani, sia del centrodestra che del centrosinistra. Su di loro pende la spada di Damocle dell’applicazione del vincolo del numero massimo di mandati, che li estrometterebbe dalle liste. Si sa che i partiti tradizionali, per darsi una parvenza di democraticità interna, ricorrono ad operazioni di facciata, come le primarie o la battaglia sui vitalizi o la regola del numero massimo di legislature, salvo poi trovare escamotage per aggirare l’ostacolo.
E’ quello che potrebbe accadere anche questa volta, il che finirebbe per agevolare la propaganda grillina, che avrebbe buon gioco nel denunciare l’invincibile istinto di autoconservazione del vecchio ceto politico.
A sinistra il problema riguarda il Partito democratico, che già dieci anni fa incluse nel suo statuto il limite dei tre mandati per i parlamentari. Recita infatti il comma 3 dell’articolo 21: "Non è ricandidabile da parte del Partito Democratico per la carica di componente del Parlamento nazionale ed europeo chi ha ricoperto detta carica per la durata di tre mandati". Successivamente, per consentire a qualche big di derogare, il limite fu interpretato come un cumulo complessivo di 15 anni in Parlamento, per cui, se le legislature fossero durate di meno, i parlamentari sarebbero stati eleggibili per più di tre legislature. Fecero comunque discutere il salvataggio di Rosy Bindi (19 anni in Parlamento), Anna Finocchiaro (25) ed Enrico Morando (19). A rimanere fuori furono Pierluigi Castagnetti, Franco Marini, Walter Veltroni e Massimo D’Alema.
Oggi il divieto di ricandidarsi dovrebbe riguardare personaggi illustri, da Paolo Gentiloni (4 legislature) ai ministri Marco Minniti, Dario Franceschini e Andrea Orlando, senza contare che finirebbero sotto la mannaia anche la Finocchiaro, Cuperlo, Damiano, Zanda, Latorre, Sereni, Chiti, Giachetti e la Bindi, tutti intenzionati a ricandidarsi tranne la presidente della commissione antimafia, che ha già annunciato il suo ritiro.
A quanto pare, però, visto che molti di questi non vogliono neppure lontanamente mettere in conto l’idea di farsi da parte, in casa dem si starebbe partorendo l’ennesimo trucco. Nella composizione delle liste per le prossime politiche, sarà possibile derogare al limite dei tre mandati con voto favorevole della maggioranza assoluta della direzione nazionale per quei parlamentari il cui contributo sia "fondamentale alla luce dell'esperienza politico-istituzionale, delle competenze e della capacità di lavoro acquisite nel tempo".
E c’è già chi insinua che politici di lungo corso come Pierluigi Bersani abbiano deciso di uscire dal partito pur di potersi ricandidare ancora. D’altra parte nelle formazioni come Mdp, nata dalla scissione dal Pd, non ci sono regole di questo tipo e quindi lo stesso ex segretario e perfino Massimo D’Alema potranno ripresentarsi e tornare a occupare uno scranno parlamentare nella prossima legislatura.
Tornando in casa dem, questa volta, però, la situazione appare davvero critica perché, applicando il limite dei 3 mandati (o anche quello dei 15 anni), bisognerebbe sacrificare alcuni fedelissimi renziani. Gli ultimi sondaggi dicono che l’emorragia di voti dal Pd sarebbe inesorabile e che il partito starebbe tornando ai livelli di Bersani, dopo aver raggiunto con Renzi il record del 40,8% di voti alle europee del 2014. Questo vistoso calo di consensi, unito alla impossibilità di raggiungere il premio di maggioranza, determinerebbe la perdita di oltre 100 parlamentari democratici. Di qui i malumori che serpeggiano tra i renziani e ancor più negli ambienti dell’opposizione interna.
Nel centrodestra Berlusconi ha fatto sapere che intende svecchiare le due pattuglie forziste di deputati e senatori, anche per lanciare un chiaro segnale di rinnovamento all’elettorato, ma siamo sicuri che i colonnelli e i fedelissimi dell’ex Cav accetteranno di buon grado l’esclusione? C’è da scommettere che alla fine, in mancanza di regole certe come quella dei tre mandati, verrà dato un posto in lista agli uscenti più graditi al capo e ben difficilmente verrà offerta ai cosiddetti “volti nuovi” l’opportunità di una candidatura. Circolano perfino voci di ripescaggi di ex parlamentari forzisti passati ad altre formazioni politiche (alfaniani o verdiniani) e pronti a correre nuovamente nelle liste azzurre.
Sia su un fronte che sull’altro, quindi, il rinnovamento della classe dirigente rimane una chimera. Il centrodestra e il centrosinistra dimostrano di non voler adottare meccanismi trasparenti e meritocratici per la selezione dei candidati. Quest’andazzo delegittima sempre più la politica partitica, spingendo l’elettorato, e soprattutto le nuove generazioni, verso un movimentismo extrapartitico dagli sbocchi incerti.