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Non abbiamo bisogno di "Maschi veri", ma di veri maschi

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La serie Netflix Maschi veri dove mariti e padri sono egoisti, deboli, falliti, vittime della loro mascolinità tossica che va decostruita. Mentre le donne appaiono forti, di successo e autodeterminate e alla ricerca ossessiva di sesso. Una noia mortale della propaganda woke, che vuole togliere al maschio la virilità dell'eroismo di un amore donato. 

Cinema e tv 28_05_2025

Tra le ragioni di crisi del cinema italiano non ci sono solo i contributi statali a pioggia per pellicole di scarso successo, ma anche il conformismo delle produzioni all’insegna della rivoluzione woke. Netflix, ad esempio, ha appena mandato in onda la serie tv Maschi veri, copiata pari pari, ma senza spunti di originalità, dalla fortunata produzione spagnola Machos alfa, arrivata alla terza stagione.

Un concentrato di stereotipi woke e di conformismo anti-machista, che ruota attorno alle vicende di quattro coppie, i cui componenti maschili sono amici dai tempi dell’università. Arrivati alla soglia dei 40 anni devono affrontare l’età che passa e le varie insoddisfazioni delle rispettive compagne: c’è Riccardo (Francesco Montanari), fedifrago impenitente che va in crisi quando la moglie, affermato avvocato matrimonialista, gli propone di aprire la coppia a nuovi scambi; Mattia (Maurizio Lastrico), separato dalla moglie, che si lascia convincere dalla figlia bisex a frequentare Tinder per scacciare il ricordo della moglie di cui è ancora segretamente innamorato; e poi c’è Massimo (Matteo Martari), dirigente televisivo licenziato per i suoi comportamenti sessisti che va in crisi quando la moglie diventa una affermata influencer rilanciandosi a sua volta come influencer per maschi veri; e infine Luigi (Pietro Sermonti), autista di autobus alle prese con l’insoddisfazione della moglie, alla ricerca di nuovi stimoli per rilanciare la loro vita sessuale.

Su di loro pesa una condanna sociale terribile: sono maschi e come maschi devono redimersi, se è il caso anche cercando l’ingresso di un nuovo amico gay per imparare a stare al mondo.

Dopo aver partecipato ad un corso di decostruzione della mascolinità – prepariamoci perché la nuova tendenza sarà questa e magari un giorno questo diventerà un obbligo per certi maschi impenitenti – i quattro cercano di adattarsi alla società in evoluzione, che ripudia il vecchio sistema patriarcale in nome dell'uguaglianza sociale, mettendo in crisi la loro identità di maschi veri; quando tutti i loro tentativi falliranno, decideranno di andare controcorrente e riappropriarsi della nomea, con esiti tragicomici.

Non spoileriamo, anche perché c’è poco da anticipare data la prevedibilità che la serie trasmette. Però le 8 puntate portano il messaggio che con questi maschi c’è davvero poco da fare: i quattro ragazzotti, che trovano la loro complicità nel padel settimanale e nella birra in compagnia, sono sostanzialmente dei falliti, incapaci di slanci eroici, di sacrificio, attratti dalla vanità, dal sesso compulsivo e occasionale, ma anche soggiogati da compagne più forti, affermate, di successo, capaci di guidare la coppia anche per strade discutibili.

Tutto qua? Alcuni di loro sono padri inconsistenti, anzi, la loro figura di genitori ne esce svilita, umiliata perché o assente o poco centrata verso quello che un padre deve fare: c’è chi si prende cura dei figli in cucina e chi accoglie la figlia quasi maggiorenne alle prese con le sue scorribande amorose con entrambi i sessi, ma in filigrana si percepisce che il mestiere del padre non l’hanno mai imparato e chi di loro non è diventato padre per scelta, non ha nessuna voglia di spendere la propria vita per gli altri.

Però ci sono le donne, presentate come l’anello forte della coppia: determinate, volitive, attraenti, di successo, indipendenti economicamente, persino capaci di slanci autodeterminati come lanciarsi nello scambismo di coppia o lasciare il tetto coniugale per andare col personal trainer per il solo motivo che «non scopiamo più», unica, ossessiva e ripetitiva motivazione portata a giustificazione di un gesto che fa comunque soffrire i figli. Ma non importa, dato che il responsabile dell’insoddisfazione sessuale della moglie è il marito troppo stressato. Però sono donne in realtà terribilmente sole, anzi, se ci fosse stato un po’ di coraggio si sarebbe potuto dire che se gli uomini sono così imbelli è anche perché hanno al loro fianco donne ciniche e spregiudicate (per la carriera e la propria autodeterminazione) dalle quali stare alla larga. Ma è una pia illusione.

Insomma, tra scenette prevedibili e altre decisamente improbabili, come quella dei genitori di Riccardo che si scopre essere affermati scambisti col commendatore vicino di casa, va in scena uno spaccato, che poco ha a che fare con la realtà, ma che nell’insistere sull'equazione maschio uguale cattivo ci confeziona un prodotto buono per continuare la propaganda woke e spingere un altro po’ l’acceleratore verso il nuovo dogma delle relazioni famigliari: la decostruzione della mascolinità e la vita in una totale e sterile assenza di amore e di donazione.

Il matrimonio viene presentato come fragile compromesso, l’intimità di coppia come uno sfogo o un riempitivo, la cura dei figli come un peso. E il lavoro come l’affermazione del proprio ego e non come mezzo per il sostentamento di una famiglia.

Una pellicola anti-familista e anti maschile e quindi anti natalista in piena emergenza demografica, prodotto scontato del bombardamento di questi ultimi decenni in cui il nemico pubblico numero uno è il maschio, sia esso padre o marito, incapace di aggiornarsi con i tempi, egoista perché ancora ancorato a retaggi patriarcali. Che fuffa. Piacerà – e infatti sta piacendo – ai circolini del perbenismo piccolo borghese che sotto sotto anela a questo tipo di vita.

E se ci sarà un seguito, prepariamoci: la serie spagnola creata dai fratelli Alberto e Laura Caballero, che almeno è più divertente e non priva di qualche frecciata nei confronti della violenza femministaiola, nelle stagioni successive ha già proposto nuove mirabolanti avventure: la moglie in ritardo con l’orologio biologico che vuole ricorrere alla pma senza il compagno, l’ingresso in scena dei maschi incel (involuntary celibate) presentati come una sorta di congrega paraterroristica, la figlia preadolescente alle prese con la transizione di genere.

La rivoluzione è servita, ma non è questo di cui ci sarebbe bisogno perché decostruire il mascolino che è negli uomini è facile con queste premesse, più difficile è raccontare il coraggio e l’amore che tanti padri e mariti, nel nascondimento fanno ancora oggi per le loro mogli, i loro figli e i loro amici. Più che di maschi veri, avremmo bisogno di veri maschi, non delle caricature di una propaganda. Eroi virili, coraggiosi, capaci di amore donandosi e proteggendo le proprie donne, non al loro seguito nella ricerca di un effimero piacere spacciato per senso della vita.