«Noi famiglie cristiane del Pakistan, schiavi nelle fornaci»
Famiglie ridotte in schiavitù per generazioni. Costrette a lavorare 14 ore al giorno, 6 giorni a settimana per qualche decina di euro al mese. È la drammatica condizione dei cristiani nelle fornaci di mattoni in Pakistan. Come i coniugi Shama e Shahzad Masih, assieme al figlio che lei portava in grembo, gettati vivi in una fornace perché accusati di blasfemia.
Intere famiglie ridotte in schiavitù per generazioni. Costrette a lavorare quattordici ore al giorno, sei giorni a settimana per l’equivalente di qualche decina di euro al mese. È la drammatica condizione dei tanti lavoratori cristiani nelle fornaci di mattoni in Pakistan. Il 4 novembre scorso i coniugi Shama e Shahzad Masih, assieme al figlio che lei portava in grembo, sono stati gettati vivi in una fornace perché accusati di blasfemia. La vicenda, che rappresenta l’ennesimo caso di omicidio extragiudiziale legato alla “legge nera”, ha acceso i riflettori su questa forma di schiavitù contemporanea.
Shama e Shahzad lavoravano in una fornace di mattoni a Kusar, in Punjab. Come altri milioni di pachistani – la Commissione Diritti Umani del Pakistan stima che in queste fabbriche siano impiegati tra i tre e gli otto milioni di operai – avevano contratto un debito con il loro datore di lavoro e non avrebbero riacquistato la libertà fin quando non lo avessero estinto. In seguito alle accuse di blasfemia rivolte a Shama – colpevole secondo alcuni di aver bruciato pagine contenti versetti del Corano – i due ragazzi cristiani sapevano di essere in pericolo e avevano chiesto al proprietario della fornace di potersi allontanare. Ma sono stati trattenuti con la forza.
Gli schiavi nelle fornaci di mattoni non sono soltanto cristiani o cittadini appartenenti alle minoranze religiose. Tuttavia, pur in assenza di stime esatte sul numero dei lavoratori, alcuni studi dimostrano come la percentuale dei cristiani tra gli operai sia altissima, specie se paragonata al minuscolo 1,6% che rappresenta la minoranza religiosa sulla popolazione. Secondo l’organizzazione pachistana Public Welfar Foundation, almeno l’80% della forza lavoro impiegata nella produzione di mattoni sarebbe formato da cristiani. Peraltro come dimostrato da un datato studio dello Human Right Watch, nel 1995 in Punjab il 68% percento degli operai intervistati praticava la fede cristiana. E non è difficile notare come nei pochi documentari realizzati sull’argomento – citiamo a tal proposito un servizio della Bbc - la maggior parte dei testimoni porti il cognome Masih, che indica appunto l’appartenenza alla fede cristiana. In Pakistan moltissimi cristiani occupano gli ultimi gradini della scala sociale, sono poverissimi e non riescono a trovare un impiego proprio a causa della propria fede religiosa. Tutti fattori che costringono le famiglie a chiedere prestiti ai proprietari delle fornaci.
Il debito contratto si chiama peshgi: una sorta di anticipo che gli operai devono ripagare attraverso il proprio lavoro. Per legge la retribuzione minima dovrebbe essere di 888 rupie (7,25 euro) ogni mille mattoni prodotti. In realtà una famiglia che riesce a produrre 2500 mattoni al giorno guadagna in media meno di 20 euro al mese. Il datore di lavoro trattiene il 50 per cento per la restituzione del debito ed il resto va al capofamiglia. La moglie e i figli vengono considerati meri aiutanti e dunque non percepiscono alcun compenso. La percentuale di bambini è altissima: in Pakistan oltre il 60% dei minori inizia a lavorare prima dei tredici anni. I dipendenti non hanno alcun tipo di assistenza sanitaria e dunque se si ammalano, come spesso accade viste le pessime condizioni igieniche e lavorative, devono chiedere un nuovo prestito al proprietario della fornace. Alimentando il circolo vizioso di una schiavitù senza fine.
Inoltre la quasi totalità degli operai è analfabeta e dunque non è in grado né di contare il numero di mattoni prodotti né di calcolare quanto le sia dovuto. Così il datore di lavoro può aggiungere senza difficoltà uno zero al debito iniziale nel contratto firmato dai dipendenti, gonfiare gli interessi, sottostimare il numero di pezzi prodotti o addirittura pretendere un rimborso per i mattoni rotti. Obiettivo ultimo è impedire al prestito di estinguersi e costringere i lavoratori a contrarre nuovi debiti.
Infine il datore di lavoro può perfino decidere di vendere i propri dipendenti al proprietario di un’altra fornace, purché questo saldi il peshgi dell’operaio con un’aggiunta di denaro per l’acquisto della “merce”. Alla drammatica condizione, vanno poi aggiunti i soprusi e le violenze fisiche e psicologiche. I lavoratori sono costretti a vivere in insediamenti fatiscenti attigui alle fornaci, spesso controllati da guardie armate, chiamate chowkidars. Gli stupri e i maltrattamenti rappresentano una pratica quotidiana. E nei pochi casi in cui gli operai hanno avuto il coraggio di denunciare i crimini subiti, sono stati arrestati dalla polizia che, complice del proprietario della fornace, ha formulato false accuse ai danni del malcapitato.
Le fornaci di mattoni violano sia l’articolo 4 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che la Convenzione n. 29 dell’Organizzazione Internazionale del lavoro (Ilo) sul Lavoro forzato. Entrambi documenti di cui il Pakistan è firmatario. Inoltre la Costituzione nazionale proibisce sia il lavoro forzato che quello minorile. E come se non bastasse nel 1992 è stato introdotto il Bonded Labour System Abolition Act, una norma che abolisce il lavoro forzato nelle fornaci e vieta ai proprietari di erogare peshgi per la cui restituzione sono necessari più di 15 giorni di lavoro. La legge – adottata soltanto dalla provincia del Punjab – prevede l’istituzione di comitati distrettuali di vigilanza. Ma i pochi che sono stati effettivamente creati, sono formati anche da politici locali spesso proprietari di fornaci di mattoni. E non stupisce che non siano mai stati riportati casi