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OSLO

Nobel per la Pace contro il "volgo" della Colombia

Juan Manuel Santos è stato insignito del premio Nobel per la Pace 2016. Però il suo accordo con le Farc, per porre fine alla guerra in Colombia, è già stato bocciato dal referendum. Perché il Nobel, allora? La risposta può essere la peggiore: per mostrare al popolo di aver "sbagliato".

Editoriali 08_10_2016
Accordi di pace: Santos, Raul Castro e "Timochenko"

Juan Manuel Santos, presidente della Colombia, ha vinto il premio Nobel per la Pace nel 2016. Come è possibile che sia stato assegnato proprio a lui, proprio pochi giorni dopo che il suo tentativo di accordo di pace con le Farc è stato clamorosamente bocciato da un referendum popolare?

I premi Nobel, ultimamente, erano sempre collettivi. Con l’unica lodevole eccezione di Malala Yousafszai (la ragazza pakistana quasi uccisa dai Talebani perché favorevole al diritto allo studio anche per le bambine), vincitrice nel 2014, tutti gli ultimi anni il prestigioso riconoscimento era stato assegnato a istituzioni, organizzazioni, collettività: nel 2012 all’Ue, nel 2013 all’organizzazione contro le armi chimiche Opac, nel 2015 ai tunisini promotori della democrazia. E anche in questo 2016 erano candidati forti, gli “isolani greci”, che sono in prima linea nel ricevere l’ondata di profughi e immigrati dalla Turchia, nonché i Caschi Bianchi, l’equivalente della protezione civile dei ribelli siriani, nonostante le loro amicizie “ambigue” a dir poco con gli jihadisti. Quello del premio collettivo stava diventando anche un modo semplice di evitare polemiche. Una singola persona è infatti meritevole di lode, ma anche responsabile di un suo eventuale fallimento. L’ente collettivo, invece, “non sbaglia mai” perché è corale, la responsabilità è diluita. In questo caso il premio Nobel è stato assegnato a una persona fisica, ma ad una persona che ha già fallito. L’accordo di pace non è andato in porto. E non è fallito per un incidente, una nuova escalation improvvisa, o al mutare di circostanze politiche che nessuno controlla: è stato proprio bocciato da un voto popolare, dalle vittime della violenza.

E allora perché? La spiegazione non si trova neppure nei precedenti, neppure in quelli più clamorosi. Il premio ex aequo a Henry Kissinger e Le Duc Tho nel 1973 per la pace in Vietnam, fu assegnato quando la guerra pareva veramente conclusa. Si poteva anche prevedere una sua drammatica ripresa, come puntualmente avvenne con l’offensiva nordvietnamita del 1975, ma era comunque assegnato in buona fede. Idem si poteva dire per i premi a Shimon Peres e Yassir Arafat nel 1993, dopo gli accordi di Oslo. Parevano aver posto fine al lungo conflitto mediorientale, non si poteva prevedere con certezza che l’Intifada sarebbe ripresa appena sette anni più tardi. Il Nobel a Barack Obama, assegnato nel 2009, è un precedente più vicino. Il presidente statunitense era stato eletto meno di un anno prima e non aveva ancora mostrato al mondo quale fosse la sua politica estera. Il prestigioso premio fu giustificato come un “incoraggiamento”, anche se i maligni (che spesso hanno ragione) lo hanno inteso come uno schiaffo politico al suo predecessore George W. Bush. Ma nessuno di questi premi controversi è paragonabile a quello annunciato ieri. Assegnato a chi ha già tentato di fare la pace senza riuscirci.

“Il Comitato per il Nobel norvegese – si legge nella motivazione - intende incoraggiare tutti coloro che si sforzano di raggiungere la pace, la riconciliazione e la giustizia in Colombia. Il presidente stesso ha messo in chiaro che continuerà a lavorare per la pace fino alla sua ultima giornata in ufficio. Auspichiamo che il premio gli dia la forza per riuscire in questo compito impegnativo. Inoltre, la speranza è che negli anni a venire il popolo colombiano raccolga i frutti del processo di pace e di riconciliazione in corso. Solo allora il paese sarà in grado di affrontare efficacemente le grandi sfide come la povertà, l’ingiustizia sociale e la criminalità legata alla droga”. Ma l’incoraggiamento appare, ora, quantomeno tardivo. E se proprio dovesse essere tale, dovrebbe essere rivolto, appunto, a “tutti coloro che si sforzano”, come era avvenuto nei casi dei premi ex aequo sul Vietnam e sul Medio Oriente. Ma in questo caso, solo Santos porterà a casa il premio, non la sua controparte Rodrigo Londono Echeverri, detto ‘Timochenko’, leader guerrigliero delle Farc. A questo proposito, il Comitato ha fornito risposte ambigue come: “Non diciamo nulla su coloro che non hanno ricevuto il premio, mentre il ruolo di Santos come presidente e ‘custode’ di questo processo di pace è stato molto importante”.

E qui sorge spontaneo un dubbio. E se fosse un Nobel assegnato al presidente proprio contro il popolo che ha votato No? Lo si intuisce da un’altra dichiarazione del Comitato: “Il fatto che la maggioranza degli elettori abbia detto No all’accordo di pace non significa necessariamente che il processo di pace sia morto. Il referendum non è stato un voto a favore o contro la pace. Quello che il No ha respinto è un accordo di pace specifico, non il desiderio di pace”. Riassunto: votate ancora e votate Sì, andrà bene la prossima volta. Pare proprio che fosse tutto pronto per celebrare la vittoria del Sì referendario: i sondaggi lo davano al 70% (oltre 20 punti percentuali in più di quelli che ha poi realmente preso), Papa Francesco aveva promesso la visita post-referendaria e il presidente Santos sarebbe stato insignito del prestigioso premio internazionale. Gli elettori colombiani hanno "rovinato la festa". Ma il premio è stato assegnato lo stesso. Come per dire agli elettori: avete sbagliato voi.

Ed è proprio questo lo spirito prevalente nella politica di questi anni: la paura del voto popolare. Il titolo più significativo è quello de Il Fatto Quotidiano, che segue a ruota quello del britannico The Guardian e del Financial Times: “Colombia, il No al referendum su pace con Farc rischia di essere Brexit di Bogotà”, mentre il Guardian parlava di "Brexit moment" e il Financial Times: "La Colombia fa una Brexit votando no all'accordo di pace". La Brexit non c’entra nulla con un referendum su un accordo di pace. Se non per un singolo aspetto: che l’elettorato ha votato contro il suo stesso “bene”, ha scelto quel che “non doveva”. E di qui nascono i sempre più frequenti discorsi sui limiti della democrazia nelle decisioni più importanti, come la Brexit (Mario Monti lo ha detto esplicitamente: “è un vero abuso di democrazia”), o anche quando alle elezioni primarie vince il candidato “sbagliato”, come Donald Trump. Dopo la sua affermazione elettorale, l’editorialista David Harsanyi, con toni che riecheggiano i dibattiti degli anni ’30, è giunto ad auspicare la fine del suffragio universale, per “sbarazzarci degli elettori ignoranti”.

Non esiste un unico potere mondiale, né un unico gruppo di “poteri forti”, ma il Nobel dimostra ancora una volta che c’è però una cultura egemone. Una cultura che propone un suo modello di mondo senza confini, di società senza identità religiose e culturali, di una pace da ricercare più nel compromesso fra valori differenti (e tutti relativi) che non nella giustizia. Ed è un’ideologia talmente tenace che resiste alla prova del fallimento. Perché, come diceva un Bertold Brecht emigrato nella DDR: “Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d'accordo, bisogna nominare un nuovo popolo”.