No, Sanremo non lo voglio vedere
Il declino inarrestabile del festival della canzone italiana è dimostrato dal fatto che ogni anno cercano un nuovo scandalo per far parlare di sé e attrarre spettatori con tutto meno che con le canzoni. Dopo aver cercato lo shock con l'islam (Cat Stevens), adesso ci provano invitando Conchita Wurst e poi una famiglia numerosa.
Al direttore che mi chiede qualche rigo sul Festival di Sanremo mi viene voglia di rispondere come Garcia Lorca: «No! Non voglio vederlo!», anche se non lo mandano in onda a las cinco de la tarde ma alle nove e dieci. Infatti, è suppergiù da quando vi si è sparato Tenco che non lo seguo e non mi pare di aver perso niente.
Il declino inarrestabile di un «evento» che ormai sembra interessare solo alle sciampiste immigrate è testimoniato dalla pena che si danno gli organizzatori per procacciarsi l’audience a qualunque costo. Come volevasi dimostrare e come ormai ogni anno, ecco puntuale l’«invitato» che dovrebbe «far discutere», con la speranza che i benpensanti (cattolici, conservatori, famiglie etero, insomma i retrivi reazionari) abbocchino e scatenino raccolte di firme, petizioni, proteste che infiammino il «dibattito» e convincano oves et boves a sintonizzarsi. Almeno per curiosità. L’anno scorso toccò a Cat Stevens far la parte di quello la cui presenza doveva attizzare la polemica magna. Il Gatto (cat) inglese di origine greca da gran tempo si era fatto musulmano e a suo tempo aveva approvato la fatwa contro Salman Rushdie. L’islam duro&puro era un tema alla moda. Quello venne, cantò un suo pezzullo di quarant’anni prima, incassò il parcellone e tornò nell’oblio.
Quest’anno però c’è il Califfato e Sanremo non se la sente di fare il Festival-Hebdò, non si sa mai (l’audience val bene una messa, ma la pelle è pelle), così si sono ributtati sul vecchio ma sempre efficace Gender, sicuro e innocuo. Da qui l’invito, strombazzato per tempo, al signor Conchita Wurst, l’omosessuale austriaco che si veste da donna ma non si taglia la barba. Vinto l’Eurovision Song Contest e proclamato Voce Europea dalla Ue, questo personaggio dal nome d’arte che ricorda i salamini del supermercato non si capisce se è diventato famoso per la capacità canora o per il look. Giro la domanda a quelli che frequentano le classifiche dei cd venduti, ma a orecchio non mi pare che The European Voice le abbia sfondate. Il fatto è che la polemica preventiva legata alla sua presenza non decolla. Non vorrei che la disperazione induca gli organizzatori a prodursi in qualche gesto estremo nella prima serata, onde rialzare l’audience delle altre. Ma che cosa mai potranno escogitare di nuovo? Lo showman (o showgirl? boh) anglofono che cantava che Gesù è gay c’è già stato, un suicidio per aver perso la gara pure, il convertito musulmano anche, il comizio di Franco Grillini è dèjà vu, Platinette è onnipresente da anni nei palinsesti ma l’unica audience che garantisce è quella della rubrica «I nuovi mostri» di Greggio & Iacchetti e solo quando si produce in litigate da cortile.
Eh, signori miei, anche la fantasia ha un limite e se la gente ti fa capire che allo «scandalo» ha fatto il callo, allora vuol dire che sei alla frutta. Anzi, peggio, perché anche la frutta, ormai, la schiacciano le ruspe per non far crollare i prezzi. Eh, bei tempi quelli in cui bastava uno che presentava il cantante e il titolo della canzone. Arrivava l’artista in smoking o in vaporoso abito da sera, il maestro usava la bacchetta e i 4+4 di Nora Orlandi supportavano ogni brano leggendo sullo spartito. Finiva con grandi mazzi di fiori per tutti. Poi, lentamente, cominciò a non bastare più. Ed ecco Antoine che canta appeso per la schiena a una corda, Rino Gaetano vestito da clown, Lucio Dalla col violinista in camicia, Patti Pravo abbigliata da Foresta dei Pugnali Volanti, Loredana Bertè col pancione di plastica… Era prevedibile che finisse come doveva finire: con le canzoni che non c’entrano più niente con Sanremo. Sì, ci sono ancora, come no, ma contano come il due di briscola. Un Sanremo basato sulle sole canzoni vedrebbe la Grande Fuga degli sponsor pubblicitari e dovrebbe chiudere. Da qui l’affannosa ricerca di «trovate».
Infatti, mi dice il direttore che Carlo Conti (per chi non lo sapesse, il conduttore di Sanremo 2015) nel corso dell’«evento» (ormai si usa questo termine anche per le mostre di parmigiano) intervisterà una famiglia-famiglia. Cos’è, par condicio? No, disperazione. Non a caso si tratta di una famiglia etero con ben sedici figli. Figuratevi se non verrà loro chiesto se si sentono «conigli». Ora, poiché questa espressione l’ha usata papa Francesco, qualunque cosa rispondano la polemica è servita. Complimenti a chi ha avuto la pensata. Purtuttavia è patetico. Sì, perché il Festival della Canzone Italiana è ormai come il Festival del Circo di Montecarlo, dove quel che conta è stupire, colpire, ammaliare lo spettatore. Non per niente il pubblico è in massima parte composto da bambini. Io, ahimè, bambino non sono più, e da lunga pezza. Perciò, al direttore che mi chiede di Sanremo rispondo con i già citati versi di Garcia Lorca, interpretati drammaticamente, alla Gassman: «No! Non voglio vederlo!».