No allo chef vegano, la fame non si placa col marketing
I frati dell'Antoniano aprono la mensa del povero agli stellati famosi, che cucinano gratis. Ma la serata con il cuoco vegano non è piaciuta, tanto che alcuni bisognosi hanno lamentato l'assenza della carne. Ma è solo un'operazione di marketing: dietro al veg c'è un business crescente.
Per forza i poveri dell’Antoniano di Bologna si sono rivoltati. Ma come? Gia siamo poveri, mangiamo poco e male, ci sogniamo di notte polli arrosto e succulente carni alla brace e voi cosa fate? Ci rifilate verdurine lessate ben impiattate (neologismo che ormai ha valore dogmatico) e noi dobbiamo pure ringraziare?
La vicenda che vede protagonista lo chef vegano Simone Salvini, che ha cucinato per i clochard di Bologna, ricevendo critiche, è davvero sintomatica di come: A, il veganesimo sia ormai religione ufficiale dei cultori delle mode, le quali devono essere sempre belle, sempre giuste e soprattutto sempre ben pagate. B, di come sulla pelle di poveracci e indigenti si sperimentino le migliori rivoluzioni antropologiche: "Dato che sono nel bisogno non potranno certo dirci di no", è il recondito schema mentale che si cela dietro il peloso “così facciamo qualche cosa per loro”. C, i poveri non li freghi: la vita li ha bruciati abbastanza, non si fanno fregare con un cocktail di latte di cocco, che tra l'altro a loro ricorda la miseria dei paesi da cui scappano. D, quando una celebrità vuole fare qualcosa per i poveri prestando gratuitamente il suo talento, state sicuri che si metterà a suonare la grancassa. Il suo obiettivo non è quello della carità, ma della ricerca di fama da pubblicizzare attraverso i grandi giornali.
Infatti, se non avessimo avuto la ricca cronaca del Corriere della Sera, con ben assestata la confessione “piacionica” dello stesso chef, non si sarebbe creato nessun impazzimento mediatico, nessuna italica divisione tra pro e contro la cucina crudista, la fama di Salvini sarebbe rimasta alla parodia che ne fa Crozza su La7 e i poveri se ne sarebbe tornati chiedendosi chi mai fosse stato quel signore che la sera prima ci ha dato da mangiare solo peperoni e seitan.
Invece ci ha pensato lui ad alzare l’asticella sulla sua mission aziendale. Come? Entrando nella mensa dell’Antoniano dei Bologna e cucinando piatti veg per poveri, profughi richiedenti asilo e bisognosi. E’ lo stesso Salvini a parlarne con soddisfazione al Corriere, salvo poi aggiungere che la maggior parte ha gradito, ma alcuni si sono lamentati. “Noi vogliamo la carne. A questo punto torniamo in strada, abbiamo bisogno della carne”.
Per forza. Passi l’esistenza a sognare di diventare come gli altri, i benestanti, i ricchi, per i quali il cliché della carne evoca normalità e poi ti arriva una brigata di stelle dei fornelli e ti tocca mangiare ancora verze e rapanelli. Saranno anche impiattati come un’opera d’arte, ma quello restano. Il fatto è che la cucina vegana è la nuova frontiera per ricchi e snob, ma essendo elevata ad ideologia politically correct, non può fare a meno di essere uno degli argomenti di dibattito più accesi su blog e siti.
E soprattutto non potendo avere altre gambe se non quella del conformismo, per imporsi ha bisogno di essere mediatizzata. Chi frequenta una mensa del povero può raccontare drammi e abissi di solitudine e disperazione, che non sarà certo una foglia di spinacio in salsa di legumi e una tagliatella al ragù di carota a fargli dimenticare le sue sofferenze. Ma l’operazione di marketing applicata al povero sembra dirci qualche cosa di più: vogliono far passare il povero dalla povertà alla chiccheria, dall’indigenza alla raffinatezza.
Vietato fermarsi prima, alla normalità cui aspira la maggior parte della gente. Perché la normalità è tanto poco cool, non segue le leggi del marketing e non risponde alle regole della business cooking. E soprattutto non si sognerebbe mai di trasformare il momento del pasto in un’esaltazione commerciale. Il pasto è convivialità, rapporti umani, se il piatto poi è buono, lo è secondo criteri estetici e sensoriali che non hanno bisogno di imporsi con le operazioni di marketing.
Nell’articolo infatti fa bella mostra di sé l’azienda specializzata in prodotti bio con la quale Salvini collabora. Insomma: un’operazione di “marchetting” per cuoco e azienda. E i poveri usati come cavia da laboratorio per una rivoluzione culturale dei costumi che si preannuncia agguerrita nel segno della lotta alla carne come nemica della civiltà e sempre cattiva per l’uomo.
Ma è un business come un altro. Basta saperlo riconoscere: chi produce prodotti veg e crudisti dovrà pure piazzarli sul mercato, promuoverli, creargli un contesto sociale ed emozionale atto al raggiungimento del target individuato. E qui il target non sono i poveri, ma l'italiano medio che si commuove a vedere questi slanci di altruismo.
Eppure, a loro, ai poveri s'intende, sarebbe basta una fettina di vitellone come quelle preparate dalla mamma, non un fagiolo dal nome esotico, per sentirsi almeno un giorno accolti nei loro bisogni. Ma forse questo è materia di riflessione per i frati dell’Antoniano, i quali sembrano credere molto nelle ospitate alla masterchef nella mensa e rischiano di prestarsi al gioco del business mascherato da buoni sentimenti con la scusa che lo stellato lavora anche gratis.
Il prossimo che arriverà sarà Massimo Bottura, il quale, dicono, da buon emiliano “ci metterà probabilmente più carne”. Ma l’obiettivo è lo stesso, e qua sfioriamo il nobel per la pace: “Far dimenticare per qualche ora a chi è in difficoltà i propri problemi”. Anche se a loro piacerebbe risolverli, i problemi. Non annegarli nella crema di tofu su letto di ratatouille di sedano rapa e patè di tahin secondo l'antica ricetta berbera.