New York conferma i duellanti: Clinton e Trump
Il giorno dopo New York è l’ora delle conferme. Tra i Repubblicani, Trump vince molto ma non tutto, Cruz lo tallona perdendo molto ma non tutto, Kasich non si sa perché non si ritiri. Tra i Democratici, la Clinton vince ma spesso zoppica, Sanders zoppica ma spesso vince eppure il secondo non ha alcuna chance.
Nello Stato di New York, martedì 19 aprile, Donald J. Trump per il Partito Repubblicano e Hillary Clinton per il Partito Democratico hanno fatto man bassa di voti e di delegati. Il primo sembra avere vinto più della seconda, ma è un trompe-l’œil dato il fatto che i Repubblicani si dividono il voto popolare in tre, mentre tra i Democratici lo scarto è più ridotto perché i contendenti sono due. La percentuale ottenuta da Trump è infatti grosso modo equipollente a quella ottenuta da Hillary e la percentuale dello sfidante dell’ex First Lady, Bernie Sanders, è de facto equipollente alla somma di quelle ottenute dagli sfidanti del “re del mattone” prestato alla politica, John Kasich e Ted Cruz.
Ma qui i “conti della serva” si arrendono all’evidenza. Trump e Hillary hanno vinto grosso e tutto dipende dal luogo in cui si è votato. Per John Lennon New York (la città) è oggi quel che Roma era nei tempi antichi: la capitale dell’impero. Vero. New York City è la capitale dell’impero del denaro, la capitale dell’impero degli affari, la capitale dell’impero del jet-set, la capitale di quegli Stati Uniti che vogliono comperarsi il resto del mondo e che se a comperarlo non ci riescono almeno vogliono guadagnarci. È la casa dell’America-mondo, e lo Stato omonimo il suo cortile. Ovviamente, ha una sua etica e una sua filosofia, una sua politica e persino una sua “teologia”. Se un “liberalismo” esiste (e a nutrire dubbi seri era anzitutto Friedrich A. von Hayek), è a New York che sta di casa, non nel resto del Paese.
Ora, il “liberalismo” è quella cosa sfuggente che non si riesce a incasellare e soprattutto a tradurre. Detto all’inglese vuol dire progressismo, quasi socialismo. Da noi è stato invece il passepartout dell’anticomunismo dell’ultimo quarto di secolo. Gli anglofoni conservatori anti-liberal, cercando di farsi capire a casa loro quando raccontano le cose di casa nostra, rendono il “liberalismo” diciamo “berlusconiano” con il termine (intraducibile) libertarianism, ma non è così perché i libertarian anglosassoni danno a Silvio Berlusconi del clientelare e poi ce n’è di varie specie, i left-libertarian (una gamma che va dai Radicali ai liberalsocialisti) e i paleo-libertarian (dal miniarchismo di Ayn Rand agli anarco-capitalisti da Messa tridentina). Come uscirne? Ci pensa appunto New York.
È qui infatti che il “liberalismo” è capace di essere tutto e il contrario di tutto purché sia fatturabile. A New York il “liberalismo” è una dottrina economica di destra quanto si confronta con il collettivismo; è una filosofia relativista quando affronta i “princìpi non negoziabili”; è politicamente di sinistra quanto la destra alla difesa della proprietà privata affianca anche Dio, la patria e la famiglia; è religioso se paga; ed è ateo se a scopo di lucro. Per capirci, New York ha appena avuto un sindaco come Michael Bloomberg campione di relativismo anche se (per un po’) Repubblicano (e prima ha avuto Rudy Giuliani che non è che fosse meglio).
In un luogo come New York, cioè, sia la città sia per estensione lo Stato, si agitano spettri che non è facile domare. Ci riesce solo chi è di casa, come Trump e la Clinton. New York è l’acquario dove squali come Trump e la Clinton nuotano da tempo. Sanno come immergersi in apnea e come stare a galla quando c’è maretta. In inglese, la disciplina sportiva praticata da personaggi navigati come loro si chiama crony capitalism, più o meno il consociativismo tra affari e politica, Stato e privato, che non sai mai dove inizia l’uno e dove finisce l’altro. Allenarvisi con costanza sviluppa un’attitudine eccezionale, quella di tenere il vento sempre in poppa.
Prendiamo campioni come Trump e la Clinton. Lui si dà arie da tycoon ma è un collezionista di fallimenti, lei si atteggia a gran dama ma è una coltivatrice di scandali (Whitewater, Bengasi, email, etc.). Le persone normali sarebbero già affogate, ma non loro. Loro hanno gli amici giusti, frequentano i salotti buoni, godono di ottima stampa. Naturale che nello Stato di New York abbiamo sfondato. Il simile attrae il simile.
Ted Cruz ha perso miseramente contro Trump perché Cruz a New York è uno straniero, quasi un marziano. Lui è figlio di quell’altra America, quella vera, quella del giusto che si contrappone allo sbagliato, del self-made man, del pioniere, quella del pane al pane e del vino al vino. Quella che non si vende e che però a New York cercano di comprarsi. Non solo il marziano Cruz nello Stato di New York ha perso tutto contro Trump, ma ha perso tanto anche contro John Kasich. È la prova del nove: primo Trump il newyorkese (e non è una questione di residenza), secondo Kasich il conservatore tattico, ultimo Cruz il conservatore vero.
Sanders uguale. Lui non è Wall Street, ma “Occupy Wall Street”. Ha ceduto alla Clinton avendola sfidata in casa e nella tana del lupo.
Il giorno dopo New York è l’ora delle conferme. Tra i Repubblicani, Trump vince molto ma non tutto, Cruz lo tallona perdendo molto ma non tutto, Kasich non si sa perché non si ritiri e in teoria la situazione può ancora ribaltarsi, oppure sarà bagarre alla Convenzione nazionale del partito in luglio. Tra i Democratici, la Clinton vince ma spesso zoppica, Sanders zoppica ma spesso vince eppure il secondo non ha alcuna chance contro la prima. Nulla di nuovo. Sempre uguale anche l’atavica frattura tra Manhattan-style e Heartland America. Ma gli è che oggi, in un’epoca in cui la “Right Nation” (la si ricorda?) è in ritirata, la prima spadroneggia.