New York, bandiera del gay pride "matrimoniale"
Le "nozze" gay diventano legge con i milioni raccolti da Obama per la lobby LGBT. Gli Usa perdono una battaglia seria, ma non ancora la guerra.
Venerdì 24 giugno sera il Senato dello Stato di New York ha legalizzato il "matrimonio" omosessuale (33 voti contro 29), il governatore Democratico Andrew Cuomo, cattolico, ha firmato la legge e così dal 24 luglio i gay di quelle latitudini potranno "sposarsi". Non tutto lo Stato di New York coincide con la cultura arrivista e liberal, materialista e arrogante della città di New York, ma che nella Grande Mela si contino oggi 45mila coppie di gay conviventi per le quali si sta in tutta fretta aumentando il numero dei giudici disponibili a celebrarne i "matrimoni" qualora un buon numero di esse li domandassero è un dato enorme, che fa riflettere.
La battaglia che ha preceduto il voto è stata infatti serratissima, ha visto mescolarsi clamorosamente i fronti e ha chiamato in causa praticamente tutti, tra i primi la Chiesa cattolica capitanata dall’arcivescovo di New York Timothy M. Dolan e alcuni testimonial importanti.
Ha infatti destato scalpore - una volta tanto in senso positivo - la strenua difesa del matrimonio eterosessuale profusa dal senatore Rubén Díaz sr., pastore pentecostale della Chiesa di Dio, e questo perché Díaz è eletto nelle fila di quel Partito Democratico che - ovunque ma specialmente a New York - sostiene la violazione aperta e sistematica di qualsiasi principio non negoziabile, tanto quanto ha generato scandalo l’opposizione scatenata contro di lui dall’establishment locale del Partito Repubblicano (da tempo l’ala “newyorkese”, o comunque “orientale”, dei Repubblicani è su posizioni smaccatamente liberal), tra cui il sindaco della Grande Mela Michael Bloomberg e il senatore Mark Grisanti, cattolico a favore delle "nozze" gay.
Con parole che meriterebbero l’espulsione ad honorem dai Democratici - e il Nobel per la strategia - , Diaz si è detto scioccato per il fatto che «il partito che ha sempre difeso i valori familiari», quello Repubblicano, in tesi suo avversario, «abbia lasciato passare il "matrimonio" omosessuale» e ha chiuso la partita con un giudizio ricalcato su precedenti parole di mons. Dolan: «Dio, non Albany - la capitale dello Stato di New York -, ha stabilito molto tempo fa qual è la definizione di matrimonio».
La questione delle "nozze" gay è del resto politica. Punta di diamante della battaglia a difesa del matrimonio eterosessuale e della famiglia naturale nello Stato di New York è stata ed è la National Organization for Marriage (NOM) che ha sede centrale a Washington. La presiede Brian S. Brown, padre di sette figli, un sontuoso curriculum di studi in Storia (all’Università della California di Los Angeles e a Oxford, in Inghilterra), già assistente al Russell Kirk Center for Cultural Renewal di Mecosta, in Michigan (il centro studi intitolato al “grande padre”, cattolico, del conservatorismo americano), e ne è chairman onorario Robert P. George, che insegna Legge a Princeton, è fra gli estensori della famosa Dichiarazione di Manhattan, è stato membro del Comitato di Bioetica del presidente George W. Bush jr. ed è oggi considerato il leader morale e culturale del mondo pro-life americano.
Per settimane la NOM ha dato vita a una mobilitazione grandiosa, riuscendo a raccogliere una ingente quantità di fondi destinati alla propaganda, ma i suoi sforzi si sono infranti quando il fronte avversario ha calato l’asso di bastoni. Ovvero il presidente Barack Obama, che prima si è chiuso in una sorta di no-comment e che poi ha rotto gli indugi intervenendo con tempismo perfetto giovedì 23 giugno al gran gala di raccolta fondi organizzato nello Sheraton della 52° Strada di Manhattan dall’LGBT Leadership Council (una potente lobby creata nell’agosto 2007 per sostenere la corsa di Obama alla Casa Bianca), dove circa 600 tra vip e attivisti hanno sborsato fino a 35.800 dollari per sostenere la causa. Certo, nel suo discorso Obama è arrivato fino alla spinosa questione dei "matrimoni" omosessuali evitando sornionamente di nominarli, ma la frittata è risucito a servirla ugualmente. È a quel punto che il conservatore e filo-Repubblicano Brian Brown ha impegnato la NOM a raccogliere nei prossimi mesi almeno due milioni di dollari da destinare al boicottaggio della rielezione, l’anno venturo, dei Repubblicani che hanno votato per il “matrimonio” gay.
Questa sconfitta nello Stato di New York è infatti pesante. Si tratta del primo grande Stato dell’Unione a legiferare in tal senso, e il suo peso simbolico è palese. New York, che non è la capitale dello Stato omonimo ma che ne è la città se non altro più evidente simboleggia per le masse "la città dove tutto è possibile", dove ogni cosa può succedere. È la città del sogno americano - di un certo sogno americano, per alcuni un incubo -, è il centro del potere del denaro americano - han mostrato di averlo ben compreso, dieci anni fa, anche gli attentatori dell’Undici Settembre -, è la quintessenza - vera o presunta - del lobbyismo, del rampantismo, dell’individualismo più sfrenato, ed è la vera capitale del “libero pensiero”.
Insomma, è una bandiera: «Se riesco a farcela lì, posso farcela ovunque», come recita la famosa canzone; una bandiera oggi arcobaleno che guida l’assalto a quel Defense of Marriage Act del 1996 che il presidente Obama giudica disinvoltamente incostituzionale cozzando ancora però contro una maggioranza di cittadini americani enorme e qualificata.