Nethanyahu negli Usa. E scoppia la crisi con il Libano
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Il premier israeliano Benjamin Netanyahu è partito per gli Usa quando è cambiato il candidato democratico e torna in Israele a seguito del più sanguinoso attacco di Hezbollah contro i drusi del Golan.
Un viaggio di Stato che passerà alla storia per il suo tempismo. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu è partito per gli Usa, il 22 luglio, quando Biden aveva appena rinunciato a ricandidarsi alla presidenza degli Usa ed è atterrato quando Kamala Harris era appena diventata la nuova candidata democratica alla Casa Bianca. Poi è ripartito sabato 27 luglio notte, in anticipo rispetto all’agenda, perché Hezbollah aveva appena lanciato l’attacco più sanguinoso contro civili israeliani dall’inizio del conflitto ed è atterrato in una Israele in piena crisi di sicurezza. Entrambi gli aspiranti alla presidenza degli Usa hanno sollecitato Netanyahu a chiudere in fretta il conflitto a Gaza. Ma ora rischia di iniziarne uno nuovo, potenzialmente molto più devastante.
La visita di Netanyahu al principale paese alleato di Israele è iniziata, come prevedibile, con grandi proteste a Washington. L’estrema sinistra, i collettivi studenteschi, Black Lives Matter e tutta la galassia dei movimenti pro-Palestina si sono dati appuntamento a Washington, manifestando di fronte al Campidoglio, bruciando bandiere americane e israeliane, chiedendo l’arresto di Netanyahu. Dentro il Campidoglio, l’aula era gremita, ma si contavano anche numerose diserzioni, in campo democratico.
Alla vigilia della visita, una lettera firmata da 230 collaboratori anonimi di Camera e Senato ha invitato i membri a protestare o boicottare l'evento. Circa la metà dei Democratici di Camera e Senato ha saltato il discorso di Netanyahu, secondo un sondaggio di Axios. Alexandria Ocasio-Cortez, la deputata più celebre dell’estrema sinistra dei Democratici (la corrente chiamata “Squadra”) lo ha definito un “criminale di guerra”. La sua collega, di partito e di corrente Ilhan Omar, musulmana, ha rincarato la dose «Sono pienamente d'accordo con la Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia sul fatto che dovrebbe essere chiamato a rispondere dei suoi crimini, non a rivolgersi al Congresso».
Ma Netanyahu non si è fatto scoraggiare dalle contestazioni. Sa che può contare ancora sul sostegno della maggioranza del Congresso. Sono state numerose le standing ovation, gli applausi a scena aperta, soprattutto da parte dei Repubblicani. Il premier israeliano ha esortato gli Stati Uniti a combattere contro la crescente minaccia iraniana, denunciando i manifestanti contro la guerra di Gaza fuori dal Campidoglio come “anti-israeliani” e “utili idioti dell'Iran”.
«I nostri nemici sono i vostri nemici. La nostra lotta è la vostra lotta. E la nostra vittoria sarà la vostra vittoria», ha dichiarato Netanyahu ottenendo una standing ovation. «Mentre ci difendiamo su tutti i fronti, so che l’America ci sostiene». Ha raccontato la storia di Noa Argamani, presente accanto alla moglie di Netanyahu, Sara, la ragazza che è stata salvata il mese scorso dalle forze speciali israeliane insieme ad altri tre ostaggi sequestrati il 7 ottobre. E tocca un tasto sensibile, che riguarda direttamente gli americani: sono ancora cinque gli ostaggi con cittadinanza americana ancora nelle mani di Hamas a Gaza, mentre tre sono stati uccisi. Ed è pensando a loro che Donald Trump aveva lanciato il suo monito ai terroristi: «meglio che liberiate gli ostaggi americani, prima che io diventi presidente».
Però il messaggio unanime a Netanyahu del presidente Biden, della vicepresidente e candidata Harris e del suo avversario Trump è: chiudere in fretta la guerra, possibilmente prima delle elezioni di novembre. «Concludere un accordo con Hamas per terminare la guerra a Gaza e riportare a casa gli ostaggi», questa è stata l’esortazione che Joe Biden ha rivolto a Netanyahu. «Facciamo un accordo in modo da ottenere un cessate il fuoco per porre fine alla guerra», ha detto la vicepresidente Kamala Harris. E Trump non ha espresso concetti troppo differenti: «Voglio che finisca [la guerra, ndr] e che lo faccia in fretta», ha detto l’ex presidente a Fox News.
Oltre al pressing americano, Netanyahu subisce la pressione interna, anche dall’esercito. Le Forze di difesa israeliane (Idf) soprattutto dopo il raid che ha eliminato il capo militare di Hamas, Mohammed Deif (la cui morte non è ancora confermata ufficialmente, ma considerata certa dall’intelligence israeliana), ritiene di aver raggiunto i suoi obiettivi a Gaza e di voler rivolgere la sua attenzione al confine settentrionale del Paese. E in effetti, i fatti di sabato 27 luglio danno loro ragione, con il più grave e letale attacco di Hezbollah.
Nulla avviene per caso ed il partito filo-iraniano libanese approfitta dell’assenza fisica di Netanyahu, nella debolezza degli Usa con un presidente “anatra zoppa” e soprattutto alza l’asticella della violenza proprio nel momento in cui i negoziati per un cessate il fuoco stanno riprendendo dopo mesi di stallo. Mentre i razzi piovevano sul Golan, infatti, William Burns e David Barnea, direttori rispettivamente di Cia e Mossad, si riunivano a Roma con il premier qatariota Mohammed bin Abdulrahman al-Thani (che ospita la leadership di Hamas e dei Fratelli Musulmani sul suo territorio) e con Abbas Kamel, capo dei servizi segreti egiziani. Obiettivo dell’incontro era sempre la ricerca di un cessate-il-fuoco in cambio della liberazione degli ostaggi.
Hezbollah ha lanciato una salva di almeno quaranta razzi contro le alture del Golan. Prima ha rivendicato con orgoglio, ritenendo di aver colpito obiettivi militari, poi ha negato ogni responsabilità quando si è diffusa la notizia su cosa avesse realmente centrato: un campetto da calcio a Majdal Shams, città a maggioranza drusa. E druse sono le vittime: tutti bambini e ragazzini dai dieci ai sedici anni di età che in quel momento stavano giocando a calcio o assistendo ai loro amici, sorpresi dall’improvviso allarme missile. La strage ha provocato 12 morti (ma il bilancio può allungarsi mentre questo articolo va online) e una quarantina di feriti.
L’ordigno impiegato, un Falaq-1 è di fabbricazione iraniana ed è usato solo dalle milizie del Partito di Dio: nonostante neghi la paternità dell'attacco, di fatto questa è la sua firma. Gli aerei della Iaf (la forza aerea israeliana) hanno subito colpito postazioni di Hezbollah in Libano. Il leader della comunità drusa, lo sceicco Muafak Tarif, chiede più sicurezza. I drusi non sono cittadini di serie B e se Israele appare indeciso nella loro protezione può aprire un altro fronte di malcontento interno.
Anche le figure politiche israeliane più moderate, di fronte alla strage degli innocenti, chiedono una risposta esemplare. «Quello che è successo qui è colpa di Hezbollah e responsabilità dello Stato libanese – ha dichiarato Benny Gantz, ora all’opposizione - E se volete la pace in Libano, è molto importante che questa aggressione venga fermata. Non entrerò nel dettaglio di cosa esattamente faremo e come risponderemo, ma sono sicuro che questo evento non potrà passare senza una risposta significativa». Per il ministro degli Esteri, Israel Katz, Hezbollah, con questo attacco ha «Superato tutte le linee rosse».
Il governo libanese ha condannato l’attacco contro i civili nelle alture del Golan e ha chiesto un immediato cessate il fuoco su tutti i fronti. Incapace di gestire uno Stato nello Stato cresciuto al suo interno (Hezbollah nel Sud del Libano), il governo di Beirut rischia di essere direttamente coinvolto nella prossima guerra con Israele, da vaso di coccio in mezzo ai bidoni di ferro.