Nella solitudine dei pensieri il poeta non trova salvezza
L’elemento caratteristico del Canzoniere è la tendenza del poeta ad osservare la propria condizione interiore, ad assaporare il compiacimento del proprio dolore e della propria irrisolutezza che si traduce nell’incapacità a percorrere una via chiara e unica. Petrarca è ammalato nella volontà.
Non si insisterà mai troppo sul fatto che il tema dominante del Canzoniere non è tanto la presenza di Laura, ma caso mai la sua assenza. Sarebbe più corretto affermare che l’elemento caratteristico dei versi petrarcheschi è la tendenza del poeta ad osservare la propria condizione interiore, ad assaporare nelle pieghe della mente il compiacimento del proprio dolore e della propria irrisolutezza che si traduce nell’incapacità a percorrere una via chiara e unica. Petrarca è ammalato nella volontà, per usare le sue parole; nella vita «Volere è poco: bisogna desiderare ardentemente per raggiungere lo scopo», direbbe il poeta latino Ovidio.
Tra le soluzioni illusorie che Petrarca persegue per sanare la propria condizione interiore, senz’altro presenta nei versi la ricerca della solitudine, lontano dagli occhi indiscreti di persone che riescano a leggere nei suoi atti l’incendio d’amore che divampa nel suo cuore. Nei Remedia amoris Ovidio suggerisce di allontanarsi dai luoghi frequentati dalla donna amata se si vuole dimenticarla e divincolarsi dalle reti gettate da Amore. Quasi seguendo le indicazioni suggerite dal poeta augusteo esperto di arte amatoria Petrarca scrive il sonetto Solo et pensoso i piú deserti campi nella nella posizione XXXV all’interno del Canzoniere. Così recita il testo: «Solo et pensoso i piú deserti campi/ vo mesurando a passi tardi et lenti,/ et gli occhi porto per fuggire intenti/ ove vestigio human l’arena stampi.// Altro schermo non trovo che mi scampi/ dal manifesto accorger de le genti,/ perché negli atti d’alegrezza spenti/ di fuor si legge com’io dentro avampi:// sì ch’io mi credo omai che monti et piagge/ et fiumi et selve sappian di che tempre/ sia la mia vita, ch’è celata altrui.// Ma pur sí aspre vie né sí selvagge/ cercar non so ch’Amor non venga sempre/ ragionando con meco, et io co’llui».
Il ritmo della prima quartina sottolinea l’incedere lento e riflessivo del poeta, che misura le terre con il proprio passo, come se stesse confrontando la grandezza da misurare (i campi) con l’unità di misura (il proprio passo). Il ritmo lento è accentuato anche dalla presenza del gerundio, dalle dittologie sinonimiche, che, quindi, nel secondo elemento non aggiungono nulla di nuovo rispetto a quanto espresso nel primo, ma riasseriscono lo stesso concetto. Infatti, una persona solitaria è quasi necessariamente pensierosa, così come tardo e lento hanno lo stesso significato. Il poeta è circospetto, si guarda attorno per evitare luoghi che siano calcati da essere umani.
Una riflessione, questa, che potrebbe sembrare semplice, familiare, da uomo qualunque. Petrarca, però, eleva la sua condizione a una situazione quasi eroica. L’operazione che Petrarca compie è complessa, non di immediata comprensione, operata attraverso un’allusione che riporta il lettore addirittura all’opera omerica. La spia della correttezza di questa rilettura ci è trasmessa nel Secretum dove Petrarca scrive: «Non meno propriamente si poteva dire di te quello che Omero disse di Bellerofonte “il quale errava triste e piangente per stranieri campi, rodendosi il cuore ed evitando le vestigia umane”». I versi del VI libro dell’Iliade sono presentati qui attraverso la traduzione effettuata da Cicerone nelle Tusculane (III, 26, 63). Attraverso l’allusione Petrarca si associa all’eroe omerico Bellerofonte, che erra solitario. La solitudine di Petrarca assurge così ad una dimensione epica. La lotta contro Amore diviene una guerra in cui il poeta è solo a contrastare una forza invincibile.
La seconda quartina è tutta giocata sulla contrapposizione tra esteriorità ed interiorità, tra gli atti spenti e il fuoco che divampa all’interno del cuore così forte che anche gli osservatori potrebbero accorgersi dell’incendio scoppiato. La prima terzina descrive il palcoscenico dei vagabondaggi del poeta («monti et piagge/ et fiumi et selve»), scenari vaghi e imprecisati, luoghi che potrebbero essere ovunque, che diventano gli unici compagni della confessione silenziosa del poeta. Siamo distanti, e non poco, dalla scrittura dantesca, così incline al realismo e alla descrizione precisa e icastica. Ricordiamo la descrizione della selva dei suicidi ad apertura del canto XIII dell’Inferno?
Eppure proprio nell’ultima terzina Petrarca vuole richiamare la Commedia dantesca alludendo a versi tra i più noti dell’intera opera. In «Ma pur sí aspre vie né sí selvagge/ cercar non so ch’Amor non venga sempre/ ragionando con meco, et io co’lui» il poeta richiama l’inizio del primo canto dell’Inferno: «Ahi quanto a dir qual era è cosa dura/ esta selva selvaggia e aspra e forte/ che nel pensier rinova la paura». L’allusione è chiara. Petrarca sembra dire che non riesce a trovare la selva oscura di Dante, che lui auspicherebbe pur di non trovare e incontrare più Amore. Petrarca è disposto perfino a perdersi nella selva oscura di Dante (amara quasi come la morte) pur di non provare più la sofferenza d’amore. Il solipsismo del Petrarca e l’egocentrismo (nel senso etimologico del termine) sono sottolineati da quell’esasperato uso del verbo alla prima persona singolare che attraversa tutto il sonetto.
Anche nel trattato in latino De vita solitaria Petrarca vagheggia la solitudine nella pace della campagna, lontano dal frastuono e dalla vita occupata della città alla ricerca della dimensione contemplativa e dello studio. In quel testo la solitudine non è una fuga, ma l’assaporamento del piacere di dialogare con i grandi scrittori e di seguirne le gesta nella scrittura, oltre che la ricerca di una religiosità più salda. Qui, invece, la solitudine è auspicata per sanare le ferite d’amore. Le lacerazioni sono, però, insanabili, così almeno sembra scrivere il poeta.
La perfezione della scrittura, attraverso l’armonia della costruzione, il sapiente uso di dittologie, di antitesi, di espedienti stilistici che trasmettano l’equilibrio e la compostezza, traducono l’estremo tentativo del Petrarca di trovare un luogo di rifugio ove scappare dalla propria irrisolutezza e dal peccato: è il luogo della poesia e delle lettere, un porto di salvezza e di refrigerio per il poeta dalle fatiche del vivere. Ma anche questo tentativo, pur se nobile, è solo illusorio e Petrarca ne è cosciente, come vedremo più avanti nell’opera in volgare I trionfi.