Nel nome dell'arte in chiesa entrano anche le mutande
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Biancheria intima (di marmo) tra le navate di San Fantin a Venezia. Simbolo della spoliazione e dell'umiliazione dei prigionieri, spiegano i curatori. Ma davvero tutto è concesso in un luogo di culto?
207 mutande sparse sul pavimento della chiesa veneziana di San Fantin in occasione della 60° Biennale di Venezia: non le ha dimenticate lì qualche visitatore distratto, ma è l’ultima frontiera del dialogo tra gerarchie ecclesiastiche e una certa arte contemporanea che, se mira a provocare, di sicuro coglie nel segno. E non di rado lascia perplessi.
Le mutande candidissime, non di bucato fresco bensì di marmo, sono il “pezzo forte” della mostra NUMBER 207 dell’artista iraniano Reza Aramesh, dedicata al tema della prigionia e della tortura, che fa da filo conduttore a tre diverse serie di sculture e si riflette anche nello spazio espositivo, la chiesa di San Fantin, dove aveva sede una confraternita dedita all’accompagnamento spirituale dei condannati. «Questo dettaglio storico sulla Compagnia di San Fantin – spiega il curatore Serubiri Moses – si collega direttamente all'interesse dell'artista Reza Aramesh per le immagini di tortura e punizione dei prigionieri attuali», che nel catalogo si alternano a quelle della mostra.
La prima serie si compone di varie teste umane, dalla perfezione michelangiolesca e il volto in tutto o in parte bendato; la seconda rappresenta delle figure maschili in differenti fasi di spoliazione, le cui pose ricordano per certi versi i Prigioni o Schiavi di Michelangelo; quindi i 207 pezzi di biancheria intima maschile, simbolo per eccellenza della spoliazione (fisica e non solo) del prigioniero che viene privato di tutto. Quest’ultima serie era già stata esposta lo scorso anno a Vienna, presso la Galerie Kandlhofer, ma di sicuro con minore impatto rispetto a un luogo di culto.
Collocazione tutt'altro che casuale, e non solo per il dettaglio storico sopra citato. «Un’esperienza che va oltre la pre-comprensione che ciascuno può avere di ciò che è lo spazio della chiesa e di quali emozioni vi si possono sperimentare», scrive in apertura del catalogo, don Gianmatteo Caputo, architetto e delegato del Patriarcato di Venezia per i beni culturali, sottolineando l’«inattesa possibilità di costringere a riflettere sul sistema di punizione, giudizio e violenza» ed esaltando la caratteristica di «site-specific project» della mostra, cioè pensata appositamente per quel luogo. Per esempio le colonne dell’edificio sacro «nascondono e rivelano le opere in un confronto reale con il tema dell’oppressione e della violenza, ma sublimato dal classicismo e dall’estetica del marmo». Ma l’altro aspetto che rende il progetto «site-specific» è la Crocifissione dipinta intorno al 1590 da Leonardo Corona (o Leonardo da Murano) che “dialoga” con le mutande di Aramesh: «L’orrore dell’umiliazione è sublimato, ma rimane ancora la perdita dell’umanità, simboleggiata – scrive ancora don Caputo – dai resti di biancheria usata che si ricollegano al perizoma di Cristo sulla croce. È un riferimento diretto al dipinto di Corona che colpì l’artista nella sua prima visita alla chiesa».
Come tutte le chiese, anche San Fantin è «destinata al culto divino» (can. 1205), stando almeno al diritto canonico. Non risulta che sia stata sconsacrata, tant’è che un anno fa il Patriarcato ne annunciava la riapertura ai fedeli «come luogo di preghiera», accanto a «proposte di musica sacra» perfettamente compatibili con la specificità del luogo («la cantata di Bach “Am Abend aber desselbigen Sabbats” per soli coro e orchestra e il Magnificat di Antonio Vivaldi»). Accanto alla preghiera e ai sacramenti, nelle chiese è «consentito solo quanto serve all'esercizio e alla promozione del culto, della pietà, della religione, e vietata qualunque cosa sia aliena dalla santità del luogo. L'Ordinario, però, per modo d'atto può permettere altri usi, purché non contrari alla santità del luogo» (can. 1210).
Lasciamo che sia il lettore a chiedersi se le mutande marmoree rientrino in questi «altri usi ... non contrari alla santità del luogo», ma ci sentiamo in buona compagnia leggendo un commento in margine a un articolo di Artslife: «Bisognava mettere come simbolo delle mutande? – chiede una lettrice – Di indumenti l’uomo ne indossa anche altri. Perché non una canottiera, sarebbe stato più dignitoso in una chiesa». Pur esplorando il "perché" e il "percome" dell'iniziativa, le dotte e profonde spiegazioni non mettono a tacere la domanda sull'opportunità di esporre biancheria intima in un luogo sacro, tra i tanti modi possibili di riflettere su questo o quel dramma.
Poiché amiamo la ripetitività più che la provocazione, ci chiediamo ancora una volta: perché ci si prende tanta libertà sempre con le chiese cattoliche e mai con i luoghi di culto di altre religioni? Domanda apparentemente banale, che si potrebbe rovesciare così: perché le altre religioni sembrano tenerci più di noi alla sacralità dei propri luoghi di culto? E aggiungiamo pure: perché non impariamo da loro? Non solo le religioni, ma persino le istituzioni mantengono una propria “intangibilità”: difficile immaginare le 207 mutande marmoree di Reza Aramesh in bella mostra tra i banchi del Senato (nessuno le attribuisca ai senatori, che in tutto sono “solo” 205, e dal conto andrebbero peraltro tolte le senatrici trattandosi di biancheria maschile).
E invece ogni esperimento sembra concesso «tra il vestibolo e l’altare» (Gl 2,17). Per non parlare della facciata. Quella, per esempio, della basilica di San Pietro, dove l’8 dicembre 2015 in pieno fervore eco-cattolico si proiettavano tigri, leoni, pesci, e ogni specie che sia stata a bordo dell’arca di Noè. Un enorme schermo per diapositive, immagine paradigmatica di quanto avviene quando lo spazio «sacro», deputato all’incontro dell’uomo con Dio, viene trasformato in spazio neutro, mero contenitore di qualsiasi istanza, che può far sentire forse “impegnati” nell’“emergenza” del momento, ma rischiando di dimenticare che la risposta è in quella Presenza che è l'unico vero motivo per cui da duemila anni si costruiscono chiese.
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