Nel dialogo ecumenico, attenzione al relativismo
«Oggi possiamo constatare non
pochi frutti buoni arrecati dai dialoghi ecumenici, ma va riconosciuto
anche il rischio di un falso irenismo».
Venerdì 27 gennaio Benedetto XVI ha ricevuto in udienza i partecipanti alla Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, che ha anzitutto ringraziato per l'impegno, a fianco del Papa, nella preparazione dell'Anno della Fede, che sarà «un momento propizio per riproporre a tutti il dono della fede nel Cristo risorto, il luminoso insegnamento del Concilio Vaticano II e la preziosa sintesi dottrinale offerta dal Catechismo della Chiesa Cattolica».
L'Anno della Fede, ha ribadito il Pontefice, è stato indetto perché «in vaste zone della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più alimento. Siamo davanti ad una profonda crisi di fede, ad una perdita del senso religioso che costituisce la più grande sfida per la Chiesa di oggi».
«Strettamente collegato» all'Anno della Fede - che è occasione di riproporre la corretta interpretazione del Concilio a cinquant'anni dalla sua apertura - è il tema dell'ecumenismo: tema scivoloso, e su cui continuamente si rischiano equivoci. «La coerenza dell’impegno ecumenico con l’insegnamento del Concilio Vaticano II e con l’intera Tradizione» - ha detto il Papa - è oggi un momento centrale della verifica dottrinale che spetta alla Congregazione perla Dottrina della Fede. «Oggi possiamo constatare non pochi frutti buoni arrecati dai dialoghi ecumenici, ma dobbiamo anche riconoscere che il rischio di un falso irenismo e di un indifferentismo, del tutto alieno alla mente del Concilio Vaticano II, esige la nostra vigilanza».
Questo indifferentismo non deriva dai documenti del Concilio, ha spiegato il Pontefice, ma dalla dittatura del relativismo: «è causato dalla opinione sempre più diffusa che la verità non sarebbe accessibile all’uomo; sarebbe quindi necessario limitarsi a trovare regole per una prassi in grado di migliorare il mondo. E così la fede sarebbe sostituita da un moralismo, senza fondamento profondo». Il centro del vero ecumenismo, ha ribadito Benedetto XVI, « è invece la fede nella quale l’uomo incontra la verità che si rivela nella Parola di Dio. Senza la fede tutto il movimento ecumenico sarebbe ridotto ad una forma di "contratto sociale" cui aderire per un interesse comune, una "prasseologia" per creare un mondo migliore. La logica del Concilio Vaticano II è completamente diversa: la ricerca sincera della piena unità di tutti i cristiani è un dinamismo animato dalla Parola di Dio, dalla Verità divina che ci parla in questa Parola».
Il problema cruciale che pone l'ecumenismo contemporaneo «è perciò la questione della struttura della rivelazione – la relazione tra Sacra Scrittura, la Tradizione viva nella Santa Chiesa e il Ministero dei successori degli Apostoli come testimone della vera fede. E qui è implicita la problematica dell’ecclesiologia che fa parte di questo problema: come arriva la verità di Dio a noi». Il problema teologico soggiacente è «il discernimento tra la Tradizione con maiuscola, e le tradizioni». Un esempio recente di tale discernimento lo si è avuto «nell’applicazione dei provvedimenti per gruppi di fedeli provenienti dall’Anglicanesimo, che desiderano entrare nella piena comunione della Chiesa, nell’unità della comune ed essenziale Tradizione divina, conservando le proprie tradizioni spirituali, liturgiche e pastorali, che sono conformi alla fede cattolica (cfr Cost. Anglicanorum coetibus, art. III). Esiste, infatti, una ricchezza spirituale nelle diverse Confessioni cristiane, che è espressione dell’unica fede e dono da condividere e da trovare insieme nella Tradizione della Chiesa».
Ma oggi, aggiunge il Papa, «una delle questioni fondamentali è costituita dalla problematica dei metodi adottati nei vari dialoghi ecumenici». Qui è precisamente più forte il rischio del relativismo. In realtà, «conoscere la verità è il diritto dell’interlocutore in ogni vero dialogo. È la stessa esigenza della carità verso il fratello. In questo senso, occorre affrontare con coraggio anche le questioni controverse, sempre nello spirito di fraternità e di rispetto reciproco». Non solo: si deve «offrire un’interpretazione corretta di "quell’'ordine' o 'gerarchia”,nelle verità della dottrina cattolica", rilevato nel Decreto Unitatis redintegratio [del Vaticano II] (n. 11), che non significa in alcun modo ridurre il deposito della fede, ma farne emergere la struttura interna, l’organicità di questa unica struttura».
I documenti comuni di studio prodotti dai vari dialoghi ecumenici «non possono essere ignorati, perché costituiscono un frutto importante, pur provvisorio, della riflessione comune maturata negli anni» ma non sono testi del Magistero cattolico: «vanno riconosciuti nel loro giusto significato come contributi offerti alla competente Autorità della Chiesa, che sola è chiamata a giudicarli in modo definitivo. Ascrivere a tali testi un peso vincolante o quasi conclusivo delle spinose questioni dei dialoghi, senza la dovuta valutazione da parte dell’Autorità ecclesiale, in ultima analisi, non aiuterebbe il cammino verso una piena unità nella fede».
Come già nel viaggio in Germania del 2011, il Papa non nasconde «la problematica morale, che costituisce una nuova sfida per il cammino ecumenico. Nei dialoghi non possiamo ignorare le grandi questioni morali circa la vita umana, la famiglia, la sessualità, la bioetica, la libertà, la giustizia e la pace». Per quanto riguarda i cattolici che partecipano al dialogo ecumenico, «sarà importante parlare su questi temi con una sola voce, attingendo al fondamento nella Scrittura e nella viva tradizione della Chiesa. Questa tradizione ci aiuta a decifrare il linguaggio del Creatore nella sua creazione» e non può essere messa tra parentesi per malinteso buonismo ecumenico. È rimanendo fermi sui principi morali non negoziabili che si combatte la dittatura del relativismo, e si evita che il dialogo ecumenico ne diventi l'ennesima vittima.