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RIFLESSIONI

Natale, festa dello stupore

30 anni fa, su Avvenire, un grande uomo di studio e di fede pubblicava questa meditazione. Praticamente
un testamento. Di un maestro.

Cultura 30_12_2010
Natività

 

Ripubblichiamo questo articolo, uscito su Avvenire trent’anni fa, il 24 dicembre del 1980, alla vigilia dell’ultimo Natale del suo autore, grande studioso e grande uomo di fede, coraggioso filosofo cattolico, che morì pochi mesi dopo, il 5 maggio del 1981.
I pensieri che vi si leggono non possono invecchiare: sono le parole semplici e toccanti di un uomo di grande sapienza sul senso del Natale, sul presepe, sul significato della festa, sullo spirito di meraviglia, sulla gratuità, sulla virtù della magnificenza.
Colpisce, in particolare, la parte finale dell’articolo, quasi profetica. La morte di Emanuele Samek Lodovici fu un’improvvisa tragica fine per la sua famiglia, per i suoi amici, per i molti discepoli che lo seguivano come maestro, per il mondo universitario
(di cui egli era eminente rappresentante), ha provocato un grande dolore mai lenito; ma per l’autore era un evento da sempre contemplato, anche nell’emozione annuale della memoria della prima venuta di Gesù nel Natale, come una promessa: quella della seconda venuta di Cristo, l’Incontro finale con il Signore della storia.
Ripronunciare le sue parole con lui è come ricordarlo vivo tra noi.

 

IL MISTERO DELL'INIZIO E DELLA FINE
Qualche volta mi trovo a riflettere su quello che penserà la maggioranza dei giovani, come me impegnati politicamente, a riguardo del presepio e del Natale. Passando per l’hinterland milanese lessi tempo fa, su un muro, una scritta ancor oggi visibile tracciata da un anonimo copista e accompagnata da un martello e una falce. "Natale è una festa stupida". Un giusto soprassalto contro il consumismo crapulone e beota? O il solito quaresimale del pauperista politico contro lo spreco? Oppure, ancora la sprezzatura verso la cerimonia dei doni scambiati a fine anno, smascherata inesorabilmente come null’altro che una figura dell’arcaico "potlatch", il rito degli Indigeni melanesiani che si regalano oggetti e che in ambiente capitalista avrebbe il senso di cancellare, in una sorta di espiazione collettiva che dura lo spazio di un giorno, tutta la psicologia del prendere e dell’arraffare che domina durante il resto dell’anno?

CONTRO LA LOGICA DELL'INARIDIMENTO
In verità le cose sono ben più complesse di quanto riescano a sospettare le categorie del politico. Probabilmente l’ostilità al Natale e a quello che esso significa con l’incanto del presepio, nascono da un impoverimento spirituale che non è necessario supporre riguardi soltanto coloro che vivono in un clima di tradizione cristiana. Probabilmente la maggioranza di quei nostri contemporanei nutre nel confronti della festa (e in genere nei confronti di tutte le tradizioni festive) un’indifferenza provocata da una perdita di significato. Crederà, cioè, di trovarsi di fronte a qualcosa di falso, di infantilmente regressivo, ad una commedia menzognera, e con ciò stesso si rivelerà il primo male di cui lei, la maggioranza, non il Natale soffre, il male costituito dalla perdita di quella che in antico era la virtù della magnificenza.

Chi è il magnifico? Risponde per tutti Aristotele: colui che compie qualcosa per pura liberalità invitando gli altri a goderne. E, in generale, magnifico è colui che sa sottrarre all’ambito del puro utilizzo economico il tempo e le cose e, sfuggendo alla legge bronzea delle azioni compiute solo in vista di un contraccambio, si libera dalla nevrosi della produzione, dell’accumulo, del laborare necesse est, vivere non necesse. Magnifico è, pertanto, in primo luogo l’uomo naturalmente religioso, giacché sa cogliere la festa non come occasione di ostentazione, ma come tempo preciso strappato al lavoro o al consumo e offerto come offerta accettabile alla Radice prima della sua esistenza.

L’uomo religioso, a differenza della maggioranza "impegnata" di cui dicevamo, si sente religatus, legato al dovere di rendere qualcosa che potrebbe ben utilizzare altrimenti (per il proprio incremento economico, per l’ipertrofia del suo io, per i love-affairs) e perciò fa getto del tempo, del tesoro del tempo, offrendolo a chi è Signore del tempo.

Ma questa perdita dello spirito di magnificenza non è che il primo dei mali che si possono diagnosticare a partire dalla presente ostilità davanti al Natale. A questo male se ne accompagna un altro e ben più grave, deducibile dall’atteggiamento di sufficienza con cui quella stessa maggioranza che si suppone adulta, guarda al presepe. Per essa il presepe è un mucchio di cartapesta, tante lampadine, qualche angelo di cartone. Paccottiglia devozionale, tutt’al più. E qui appare, appunto, l’altra lacuna: l’inaridimento dello spirito di meraviglia. Inaridimento dello stupore e della riverenza di fronte al sempre rinnovato mistero dell’esistenza. Spirito di meraviglia che è segno di giovinezza spirituale e di cui il presepe è ad un tempo la spia indicativa e il primo motore (almeno nel tempo ormai lontano della nostra infanzia).

L’ESPERIENZA DELLA MERAVIGLIA
La spontaneità, infatti, la gioia di chi non cessa, adulto, di stupirsi di fronte allo spettacolo inesauribile delle cose abituali (il fatto di vivere e di morire, la bellezza del mondo - O. Wilde diceva che apprezzeremmo di più i tramonti se li pagassimo -, gli esseri che amiamo, le opere da compiere e così via), quella spontaneità, dicevo, vive in segreta intesa e consonanza con la reverenza e la gioia che abbiamo cominciato a provare da bambini scorgendo, la mattina presto, dalla fessura della porta la luce della grotta del presepe con i regali intorno. Lì, in quel momento del nostro passato, se abbiamo avuto gli occhi per vedere, abbiamo cominciato ad accumulare un tesoro di esperienza, l’esperienza della meraviglia, che nell’ora del non-senso e del dolore, nell’ora della piatta insignificanza che presto o tardi si sarà fatalmente accompagnata al nostri transiti ulteriori, ci è stata sommamente utile.

E quella maggioranza che vede nel Natale una sciocchezza e nel presepe una commedia infantile, non si rende conto di quale enorme difesa di fronte alla stanchezza della vita, alle abitudini, ai tedi, alle fatiche, essa privi il bambino, e col bambino l’uomo, quando reprima e lanci l’interdetto a quello spirito di stupore. Contro questa bêtise moderna, incapace di capire che il nostro guaio non sta nel fatto che il mondo cessa di dare ma nel fatto che abbiamo perso la capacità di apprezzare, contro questa bêtise nessuno ha scritto meglio del più grande poeta di questo secolo, l’angloamericano T.S. Eliot in una poesia su La coltura degli alberi di Natale. Ascoltiamolo nel suo tono dimesso ed incantato.

Vi sono molti atteggiamenti riguardo al Natale

e alcuni il possiamo trascurare:

il torpido, il sociale, quello sfacciatamente commerciale,

il rumoroso (essendo il bar aperto fino a mezzanotte),

e l’infantile.

Ben diverso è quello del bimbo

che crede ogni candela una stella, e l’angelo dorato

spieganti l’ale alla cima dell’albero

non solo una decorazione, ma anche un angelo.

Il fanciullo stupisce di fronte all’albero di Natale,

lasciatelo dunque in spirito di meraviglia

di fronte alla Festa, a un evento accettato non come pretesto.

Così che il rapimento splendido, e lo stupore

del primo albero di Natale ricordato, e le sorprese, e l’incanto

dei primi doni ricevuti (ognuno

con un profumo inconfondibile e eccitante),

e l’attesa dell’oca o del tacchino, e l’evento

atteso e che stupisce al suo apparire,

e la reverenza e la gioia non debbano

essere mai dimenticate nella più tarda esperienza

nella stanca abitudine, nella fatica, nel tedio.

Nella consapevolezza della morte, nella coscienza del fallimento

nella pietà del convertito

che si potrebbe tingere di vanagloria

spiacente a Dio e irrispettosa verso i fanciulli

e qui ricordo con gratitudine anche

Santa Lucia, con la sua canzoncina e la sua corona di fuoco).

Così che prima della fine – l’"ottantesimo” anno, l’ultimo, qualunque esso sia –

le accumulate memorie dell’emozione annuale

possano concentrarsi in una grande gioia

simile sempre a un grande timore, come nell’occasione

in cui il timore giunse ad ogni anima.

Perché l’inizio ci ricorderà la fine E la prima venuta la secondo venuta

LA DUPLICE VENUTA
Chi ci ha seguito sin qui leggendo il testo di Eliot avrà capito che sino ad adesso non ne abbiamo fatto che una modesta perifrasi. E sulla medesima linea vogliamo anche concludere richiamando per un attimo ancora l’attenzione sul programma di intelligenza (e sul dovere dell’intelligenza) in quella poesia contenuto. Prima di tutto il programma di scoprire coi bambini ogni anno davanti all’albero di Natale e al presepio che la vita non è solo un imbuto grigio, una decorazione inutile, un suono di latta, ma anche il luogo di eventi attesi e meravigliosi che rapiscono per il loro apparire - solo che abbiamo gli occhi per vederli - come il bimbo che non vede solo una candela ma una stella, che non vede solo una decorazione ma un angelo.

Capire, dunque, assieme ai bambini che la vera menzogna è dire che il mondo è una lastra opaca, al di sotto della quale non vi può essere che frustrazione e disgusto. Questa la prima parte del programma, e la seconda, oltre alla ricorrente "emozione annuale" da vivere con i più piccoli, andarla a cogliere in quell’altro annuncio, supremamente importante che fa capolino negli ultimi accordi della poesia, ovvero che ogni inizio ricorda una fine, che la prima venuta del Cristo, ricorda sempre, a noi adulti, la sua seconda venuta, la nostra morte.