Nasce il Pur, il Partito Unico delle Riforme
Malpancisti e dissidenti di centrodestra e sinistra se ne facciano una ragione: dopo il Patto sulle riforme e il Senato elettivo siglato da Renzi e Berlusconi non c'è più spazio per inutili chiacchiere e sottili distinguo. Ed è probabile che non si voterà neppure nel 2015.
Il semestre italiano di presidenza europea, appena inaugurato, si annuncia decisivo per alcune partite. Anzitutto per la ripresa economica, visto che gli ottanta euro al mese concessi da Renzi non hanno finora portato i benefici sperati. I consumi non sono aumentati, la gente non si fida dell’apparente ritorno del sereno nei cieli dell’economia nazionale e cerca conferme prima di tornare a spendere. Il debito pubblico, in virtù degli interessi passivi, continua a salire in maniera spropositata e non basteranno altre manovre aggiuntive e di spending review per farlo scendere.
Di questi rischi il premier è ben consapevole, tant’è vero che, anche in sede europea, forte dell’appoggio esterno dei fondi americani, egli sta premendo sull’acceleratore della crescita e intende sconfiggere sia gli euroscettici sia i fautori del rigore a tutti i costi (Bundesbank e poteri finanziari tedeschi), giocando di sponda con la Francia. Ma Renzi, per combattere la sua battaglia a Bruxelles, ha bisogno di sentirsi coperto in Italia e dunque intende chiudere quanto prima la pratica delle riforme per presentarsi durante il semestre come l’artefice della rinascita istituzionale italiana, legando il suo nome alla fine del bicameralismo e all’avvio della cosiddetta “Terza Repubblica”.
Ecco perché ha blindato il suo patto con Berlusconi: si fida dell’ex Cavaliere e non intende cedere ai ricatti dei malpancisti del Pd e ai veti dei piccoli partiti come il Nuovo Centrodestra di Alfano. Vuole procedere spedito sul Senato elettivo, da portare in aula entro l’estate per l’approvazione definitiva e, subito dopo, accontenterà Berlusconi sulla legge elettorale, blindando l’Italicum e respingendo ogni ipotesi alternativa gradita al Movimento Cinque Stelle. L’Italicum, con soglia di sbarramento al 40% (così la vorrebbe Forza Italia, mentre Renzi la lascerebbe al 37%, come stabilito nel Patto del Nazareno), consentirebbe a centrodestra e centrosinistra di respingere l’assalto dei grillini, che ben difficilmente, in caso di ricompattamento dello schieramento berlusconiano, riuscirebbero ad arrivare al ballottaggio contro il Pd e i suoi alleati. La rappresentanza parlamentare pentastellata, in quell’ipotesi, si assottiglierebbe non poco e il potere di interdizione di Grillo scemerebbe.
I malumori nel partito berlusconiano, sia sul Senato elettivo sia sulle preferenze elettorali, potrebbero rientrare già la prossima settimana. Gli alfaniani, invece, pur di mantenere i tre ministeri di peso nell’attuale governo, dovranno accettare di non alzare troppo la voce sulle riforme e quindi subiranno in pieno l’asse Renzi-Berlusconi. Questo almeno riferiscono fonti ben accreditate. Berlusconi sta dando una grossa mano al premier in questa fase storica così delicata per lui e per l’Italia in generale. L’endorsement di Piersilvio e i gesti di apertura a Renzi da parte di molti parlamentari azzurri sono un buon viatico per l’iter delle riforme e consentono al premier di poter alzare la voce all’estero senza il rischio di essere delegittimato dalla politica nazionale.
Di qui anche la sua strategia, fondata su insistenti e quasi martellanti annunci sulla riforma della Giustizia e della Pubblica amministrazione, al fine di mantenere elevata la soglia delle aspettative nel suo elettorato e di poter arrivare alla fine del semestre italiano di presidenza italiana con risultati concreti all’attivo. In questo senso, l’azione del governo, sia sul versante economico che del mercato del lavoro che della scuola, sarà decisiva per far maturare a Renzi un bonus da spendersi l’anno prossimo, magari con nuove elezioni. Qualcuno sospetta, infatti, che una volta riformato il Senato e approvata la legge elettorale, il premier voglia andare all’incasso, blindare la sua maggioranza e raccogliere i frutti elettorali di un anno di governo.
Contro quest’ipotesi giocano due fattori: l’attaccamento alla poltrona della maggioranza dei parlamentari, che sperano di trascinare la legislatura fino al 2018 (scadenza naturale), nel timore di non essere più ricandidati o rieletti; la prudenza di Giorgio Napolitano, che intenderebbe lasciare il suo incarico all’inizio del 2015, a conclusione del semestre italiano di presidenza europea, a patto che la legislatura continui sui binari della stabilità. L’inquilino del Colle sa bene che il centrodestra ha tutto l’interesse a far eleggere in questo Parlamento il suo successore. Attualmente Forza Italia e le altre forze di quell’area politica hanno numeri determinanti e possono condizionare l’esito della successione a Napolitano. In un ipotetico nuovo Parlamento con una schiacciante maggioranza renziana, non sarebbe evidentemente così. Ecco perché tutto lascia supporre che non si voterà neppure nel 2015. A meno che il patto Renzi-Berlusconi non preveda anche questo improvviso showdown, per ridimensionare i pentastellati e costruire un bipolarismo o addirittura un bipartitismo. Sarebbe la prova inoppugnabile dell’esistenza di un “Partito Unico delle Riforme”.