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il libro

Napoleone ladro d’arte

Un agile e documentato volume ripercorre le spoliazioni artistiche compiute ai danni del nostro Paese dalla Francia post-rivoluzionaria. Alcuni capolavori furono restituiti con la Restaurazione o in seguito, molti finirono in gallerie private e alcuni furono distrutti e dispersi. Un altro frutto dell'ideologia giacobina e della megalomania napoleonica.

Cultura 07_01_2023

Lo storico Giorgio E. Cavallo ha scritto un bel libretto, tanto agile quanto documentato, per ricordare quel che in verità, in Italia, tutti sappiamo da sempre. E cioè che la vicina Francia, nel periodo torbido che fece seguito alla rivoluzione francese (1789), prelevò un’indefinita ma cospicua quantità di oggetti artistici dalla nostra patria.

Nella prefazione, lo psicologo Roberto Marchesini fa notare che, nel passaggio da epoche spiritualiste ad epoche materialiste, l’arte cambia di significato. E le realizzazioni artistiche, fatte le debite eccezioni ovviamente, perdono «ogni significato metafisico (religioso, ma anche teleologico e ontologico)». E vengono ridotte a «oggetti curiosi, che hanno – al più – un valore economico» (p. 9). Senza voler demonizzare oggi il museo e l’esposizione artistica, Marchesini spiega che tradizionalmente, anche prima e al di fuori del perimetro cristiano, l’arte si associava alla vita vissuta, alla gloria dei regnanti, alla ricerca del bello e alla spiritualità dei popoli. Mentre l’arte destinata al museo, alla mera fruizione della gente e alla fama (spesso ben retribuita) dell’artista, è un’altra cosa. E il rischio di estetismo amorale è sempre dietro l’angolo.

Lo storico Cavallo inizia il racconto narrando un episodio poco noto tra i tanti furti artistici che fecero la storia. Ovvero il ratto della Gioconda, messo a segno, all’interno del Louvre di Parigi, dal decoratore italiano Vincenzo Peruggia (1881-1925), il 21 agosto 1911. Il ladro fu in seguito scovato e arrestato, e la refurtiva resa alla Francia. Pochi sanno però che l’intento del Peruggia era ideologico-patriottico più che criminale. Il ladro-idealista voleva infatti «vendicare l’Italia degli affronti subiti durante il periodo napoleonico» (p. 13). Però, tra le mille opere di origine e provenienza peninsulare, che in effetti riempiono il celebre museo francese, la Gioconda fu mal scelta, perché fu Leonardo stesso a cederla a Francesco I.

Il concetto di museo è criticato dall’Autore come simbolo di “arte per l’arte”, Anche se giova ricordare che tra i primi musei al mondo ci furono i Musei Capitolini, dovuti alla perizia di Clemente XII, e aperti al pubblico sin dal 1734. Ma ora concentriamoci sulle razzie giacobine e napoleoniche in Italia. Secondo Cavallo esse non furono casuali ma giustificate in nome di una sorta di «pulizia etnica» allo scopo di «cancellare una civiltà inferiore» (p. 25). Se le depredazioni degli eserciti sui popoli vinti sono vecchie quanto la guerra, poche volte c’è stato l’accanimento dei giacobini e di Napoleone nel saccheggiare di tutto per la gloria della laica République.

Bisogna dire che il furore ideologico giacobino prima ancora di danneggiare e impoverire le antiche terre italiche, si era rivolto alle stesse chiese e abbazie galliche, e i danni fatti dalla Rivoluzione alla Francia, anche in termini patrimoniali, furono immensi. Dalla sola Notre Dame furono tolte 90 statue e 24 monumenti sepolcrali (cfr. p. 40). L’ideologia giacobina voleva creare ex nihilo un “uomo nuovo”, privo di storia e di ancoraggi, e così l’arte tradizionale, specie di ispirazione religiosa, doveva essere annientata. Almeno nel senso liturgico-rituale. Un quadro religioso o la statua di un santo, nelle chiese erano mal viste come “bigotterie”, mentre in un museo statale (e a pagamento) no.

«Insomma: asportando le opere d’arte dall’Italia e dagli altri Paesi (…), i francesi evidenziavano l’inferiorità antropologica di quei popoli incapaci di affrancarsi dall’Ancien Régime» (p. 37). E Napoleone, nella sua impareggiabile megalomania, volle «creare un museo vastissimo, insuperabile, mai veduto da occhio umano» (p. 51). Nell’impossibilità di recensire tutte le distruzioni e i saccheggi descritti dall’autore, ne ricordiamo solo alcuni ai danni di artisti notori. Nel Regno di Sardegna furono trafugate 84 tele, tra cui un Guercino e un’Annunciazione del Gentileschi. Furono presi anche i 30 volumi di Pirro Ligorio (1513-1583), «conservati negli Archivi di Corte» (p. 53).

A Milano furono rubati un disegno di Raffaello (1483-1520), 5 opere di Brueghel (1568-1625), una tela di Rubens (1577-1640), una di Giorgione (1478-1510) ed il Codice Atlantico di Leonardo (1452-1519). Altre opere importanti furono sottratte a Brera, e fu presa anche L’incoronazione di spine di Tiziano (1488-1576). Nel Ducato di Parma sparirono quadri del Correggio, Mazzola, Anselmi, Parmigianino, Carracci. Dal Ducato di Modena furono prelevati e spediti a Parigi “1213 pezzi”, tra cui monete romane, greche, pontificie, etc. Inoltre furono incamerate opere del Guercino, dei Carracci e di Guido Reni. A Mantova la razzia toccò opere di Mantegna, Giulio Romano, Rubens. Nella repubblica di Venezia, oltra alla celebre distruzione del Bucintoro e del museo dell’Arsenale, fu trafugato il tesoro della basilica di san Marco, quello della basilica di san Zeno a Verona e fu saccheggiato il palazzo ducale. Furono asportate opere del Veronese, del Palladio, del Mantegna, del Tiziano.

Dalla Toscana scomparvero capolavori di Raffaello, Cimabue, Giotto, Benozzo Gozzoli, Andrea del Castagno, Ghirlandaio, Botticelli, Gentile da Fabriano, Filippo Lippi, Pontorno, Beato Angelico. In Liguria furono prelevate opere di Filippino Lippi, Beccafumi, Cambiaso, Andrea Della Robbia, Casoni. Nello Stato della Chiesa, oltre al ratto dei pontefici Pio VI (1798) e Pio VII (1809), furono prese o vandalizzate opere di ogni tipo: manoscritti, documenti, gallerie, arredi sacri, arazzi, reliquie, etc.Nel regno di Napoli, opere di Spagnoletto, Cimabue, Andrea Vaccaro, etc.

In conclusione l’autore, seguendo alcuni studi, stima a 5233 i «capolavori sottratti». Alcuni furono restituiti con la Restaurazione o in seguito, molti finirono in gallerie private e alcuni furono distrutti e dispersi. Amare l’arte cosa buona e giusta. Ma amare sia l’arte sia la rivoluzione francese è piuttosto arduo: il faut choisir. Per completezza si può consultare anche il volume recente di Paul Wescher, I furti d’arte, Res Gestae, 2022.