Myanmar, la democrazia vittima della Via della Seta
Dopo il golpe nel Myanmar, la Cina pone il veto ad una risoluzione di condanna al Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Ma il regime di Pechino ha sostenuto il colpo di Stato militare? Alcuni indizi indicherebbero quantomeno un incoraggiamento.
Nel Myanmar i militari consolidano il potere dopo il colpo di Stato del 1 febbraio, arrestando tutti gli oppositori di spicco, incluso il presidente Win Myint e la “consigliera di Stato” (carica di fatto equivalente a premier) Aung San Suu Kyi. Nei confronti di quest’ultima, i golpisti stanno imbastendo un processo che si preannuncia già come una farsa, considerando che le accuse per ora consistono in import export illegale e possesso illegale di walkie talkie. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha cercato di spiccare una risoluzione di condanna, ma è stato fermato dal veto della Cina. E, in questo modo, Pechino ha gettato la maschera anche ufficialmente. Di fatto appoggia il colpo di Stato militare. Ma quanto è coinvolta la Cina nella sua preparazione e attuazione?
Gli indizi ci sono. La visita di Stato del presidente cinese Xi Jinping nel Myanmar è avvenuta nel gennaio del 2020 ed è servita a pubblicizzare buoni rapporti fra il governo democratico di Aung San Suu Kyi e il regime cinese. Tuttavia, meno di tre settimane prima del golpe, il ministro degli Esteri Wang Yi incontrava il comandante in capo dell’esercito, Min Aung Hlaing, artefice del colpo di Stato. Nella nota ufficiale del Ministero degli Esteri cinese del 12 gennaio si legge, nel classico tono diplomatico, “Lo scopo principale del viaggio di Wang Yi nel Myanmar, su invito, è quello di comunicare in profondità con il Myanmar su come implementare i risultati della visita di Stato di Xi Jinping nel Myanmar e di scambiare pareri su come sviluppare legami bilaterali nella prossima fase. Costruire una comunità Cina-Myanmar con un futuro condiviso, mostra prima di tutto il sostegno reciproco delle due parti quali paukphaw, fratelli”.
Queste parrebbero solo frasi di circostanza, ma alla luce del colpo di Stato di appena tre settimane dopo, condotto proprio dall’uomo che sedeva di fronte a Wang Yi, assumono un significato molto più sinistro. Parrebbe quasi la riedizione di quella dottrina Brezhnev che motivò l’intervento dei carri armati sovietici in Cecoslovacchia e poi il golpe Jaruzelski in Polonia. Ovviamente i blocchi politici del mondo di oggi sono molto più sfumati e la Cina non ha la possibilità di intervenire apertamente. Ma solo di “ispirare” eventi a suo vantaggio.
Il modo in cui la propaganda di regime, in Cina, sta descrivendo gli eventi nel Myanmar è altrettanto significativo. Nessun media ufficiale cinese parla di golpe, l'agenzia di Stato Xinhua lo descrive come un “rimpasto di governo”. La posizione ufficiale di Pechino è spingere affinché “le parti appianino le loro divergenze”, come se il partito Lega Nazionale per la Democrazia e l’esercito fossero sullo stesso piano, senza distinguere fra chi aggredisce e chi è aggredito, fra chi è armato e chi è disarmato. Il quotidiano di partito Global Times, citando “esperti” anonimi, commenta la presa del potere da parte dei militari come una “correzione della struttura di potere disfunzionale nel Paese”.
In assenza di un intervento diretto, è possibile sostenere anche la tesi contraria. Cioè che Pechino, che aveva comunque coltivato buoni rapporti con Aung San Suu Kyi, sia ora “imbarazzata” dal golpe militare. E’ per esempio la tesi di The Diplomat, quotidiano di politica asiatica. Quindi la presa di posizione di Pechino all’Onu parrebbe più ispirata alla tradizionale linea politica di non ingerenza (degli occidentali in Asia), che non una difesa dei generali birmani in sé. E anche la minimizzazione dei toni nella propaganda ufficiale di Pechino si spiegherebbe con la necessità di mantenere l’importante partnership economica con la ex Birmania. Però… quando il ministro degli Esteri cinese ha incontrato il futuro leader golpista, la situazione era già molto tesa, con l’esercito che accusava di brogli elettorali il partito democratico a due mesi dal voto. E possibile che l’intelligence cinese, che ha sempre cooperato con le forze armate birmane, fosse all’oscuro di quel che bolliva in pentola e che sarebbe scoppiato di lì a venti giorni?
L’atteggiamento cinese, prima e dopo il colpo di Stato, appare, nella migliore delle ipotesi, come un deliberato disinteresse nei confronti della sorte della fragile democrazia asiatica. Nella peggiore, come un aperto appoggio ai golpisti. D’altra parte, gli interessi cinesi nella ex Birmania sono ingenti. Durante il periodo più duro di legge marziale imposta dai militari (1988-2010) il Paese era un paria internazionale, ma coltivava buoni rapporti solo con la Cina comunista, tanto da gravitare nella sua sfera di interesse economica. In tempi più recenti, il Myanmar è diventato un tassello importante della Nuova Via della Seta, con oleodotti e gasdotti che collegano la provincia cinese dello Yunnan al golfo del Bengala. Sono in corso progetti per costruire strade e ferrovie lungo lo stesso percorso.
Ma c’è un movente cinese per appoggiare un golpe? Apparentemente no, a parte il puro intento di “riportare l’ordine” nel modo più classico e brutale in una regione strategicamente importante e politicamente instabile. In un conflitto fra governo civile e potere militare, i Cinesi, in questa ottica, hanno appoggiato chi ha le armi. Ma è anche possibile che, nonostante i sorrisi di facciata, la Cina vedesse Aung San Suu Kyi come una spina nel fianco “americana”. Sono infatti gli Usa quelli che si sono battuti per la sua liberazione nel 2010 e per il ritorno del Paese alla democrazia. E in uno scenario di quasi guerra fredda fra Usa e Cina, mantenere la presa su ogni territorio diventa essenziale.