Myanmar, i democratici si rivoltano contro la Cina
Domenica di sangue nel Myanmar, almeno 50 le vittime, seguita da altre manifestazioni nella giornata di ieri. La protesta assume una connotazione più internazionale, perché gli scontri di domenica sono scoppiati a causa di un assalto alle fabbriche tessili cinesi. La Cina è accusata (non senza fondamento) di appoggiare la giunta golpista
Domenica di sangue nel Myanmar, almeno 50 le vittime, seguita da altre manifestazioni nella giornata di ieri. La protesta assume una connotazione più internazionale, perché gli scontri di domenica sono scoppiati a causa di un assalto alle fabbriche tessili cinesi. La Cina, infatti, è accusata dai democratici di sostenere la giunta militare, economicamente e militarmente.
La domenica di sangue si è svolta soprattutto nell’area dei sobborghi industriali di Yangon. Nella città ex capitale (Rangoon) gli scontri con la polizia hanno provocato almeno 18 morti fra i manifestanti, nei sobborghi di Hlaing Tharyar, Thingangyun, Shwepyithar, South Dagon le vittime sono state una trentina. Nelle manifestazioni tenutesi in altri distretti del Paese sono almeno 15 le vittime. Un bilancio molto pesante, il peggiore dal 1 febbraio, giorno del colpo di Stato militare. In totale, dal 1 febbraio ad oggi, la repressione armata avrebbe provocato 183 morti e 2175 prigionieri, di cui solo 319 rilasciati dalle autorità, secondo le stime dell’organizzazione non profit Assistance Association for Political Prisoners.
Lo scontro fra manifestanti e polizia è iniziato con l’incendio di alcune fabbriche e centri commerciali cinesi nel sobborgo industriale di Yangon, Hlaing Tharyar. La colpa è stata immediatamente attribuita agli oppositori democratici, anche se non è ancora stata fatta luce su chi abbia appiccato gli incendi dolosi. Secondo fonti dell’opposizione potrebbe anche trattarsi di una provocazione condotta dalle autorità. Ma in ogni caso l’incendio è scoppiato in un momento in cui cresce il risentimento nei confronti della Cina. La potenza vicina si oppone tenacemente, in sede Onu, ad ogni provvedimento serio contro la giunta militare. Contrariamente agli altri vicini asiatici e partner commerciali, come Giappone, Singapore e Corea del Sud, la Cina considera il golpe come una questione strettamente interna al Myanmar e piuttosto condanna ogni interferenza straniera.
Sui social media gli oppositori democratici accusano la Cina di sfruttare economicamente il Paese e di mandare anche consiglieri militari per aiutare la giunta a reprimere la protesta. Uno slogan divenuto molto popolare nei social network, in questa settimane è “Cina fuori dalla Birmania!” mentre circolano liste di aziende di proprietà cinese contro le quali si invita al boicottaggio. Moe Sandar Myint, sindacalista, presidente della Federazione Generale dei Lavoratori del Myanmar, dichiarava ieri al Wall Street Journal che molti operai del tessile sono stati minacciati dai loro datori di lavoro cinesi, a causa della loro partecipazione a manifestazioni e ad atti di disobbedienza civile. Gli imprenditori cinesi, insomma, si comportano come se fossero parte dell’apparato repressivo. Un monaco buddista, intervistato nella stessa occasione, lamenta che la Cina non adempia al suo dovere e alla sua responsabilità di vicino potente: “Sono un grande Paese, vedono quel che sta accadendo, ma non intervengono”. La loro inazione, spiega il monaco, è essa stessa un sostegno alla giunta militare.
Dopo l’incendio, l’ambasciata cinese nel Myanmar ha rilasciato un comunicato dal tono paternalista, in cui invita la popolazione a comportarsi bene: “Sollecitiamo il popolo del Myanmar ad esprimere le loro richieste legalmente, evitando di essere aizzati e sfruttati per danneggiare la cooperazione amichevole fra Cina e Myanmar”. L’ambasciata sottolinea che le industrie cinesi, soprattutto nel tessile, hanno creato quasi mezzo milione di posti di lavoro e che le azioni dei ribelli stanno danneggiando l’economia. Al tempo stesso, però, l’ambasciata chiede espressamente alle autorità militari di rispondere con durezza agli attacchi contro le proprietà cinesi. Rispondendo a strettissimo giro di posta alle richieste cinesi, la giunta militare del Myanmar ha proclamato la legge marziale anche per tutti gli altri distretti di Yangon e Mandalay che ne erano esclusi. Ove c’è la legge marziale, i manifestanti arrestati potranno essere processati da tribunali militari.
Le proteste democratiche chiedono le dimissioni della giunta militare e il ripristino del governo democraticamente eletto a novembre, che avrebbe dovuto insediarsi il 1 febbraio. La leader della Lega Nazionale per la Democrazia, Aung San Suu Kyi, è stata arrestata e accusata di reati alquanto bizzarri, come la violazione delle regole per il Covid, il possesso di walkie talkie e di aver ricevuto illegalmente una tangente di 600mila dollari e 11 kg d’oro, un tesoro del quale i difensori negano l’esistenza. L’udienza di ieri è stata rimandata per “problemi tecnici” di connessione Internet.
Ma il massacro compiuto dai militari potrebbe alzare la posta in gioco ulteriormente. Il capo del governo-ombra democratico (Chrp) Mahn Win Khaing Than, da una località segreta, ha diffuso un proclama via social network, in cui invita esplicitamente il popolo alla rivoluzione.