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CRISI

Myanmar abbandonato in nome del politicamente corretto

La brutale repressione dei militari birmani contro civili che chiedono il ripristino della democrazia prosegue nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale. Non ultimo per la perdita di appeal di Aung San Suu Kyi, a cui si imputa la complicità nella persecuzione dei Rohingya, la minoranza islamica del paese.

Editoriali 03_03_2021
Suor Nu Tawng davanti ai militari

Neanche la foto di suor Ann Rosa Nu Tawng che, da sola, in ginocchio si para davanti alle forze di sicurezza implorandole di non sparare sulla folla inerme, ha provocato una reazione internazionale adeguata alla gravità della situazione in Myanmar, l’ex Birmania. Il 1° febbraio il paese ha visto un nuovo colpo di stato militare che ha annullato le elezioni dell’8 novembre scorso quando la Lega Nazionale per la Democrazia (LND), guidata da Aung San Suu Kyi, aveva stravinto aggiudicandosi oltre l’80% dei seggi in Parlamento.
La stessa Suu Kyi è stata arrestata, e da quel momento la popolazione birmana ha cominciato a scendere in strada per manifestare pacificamente, sfidando la mano sempre più dura dei militari che hanno già ucciso diverse decine di manifestanti.

Del resto, in Myanmar i militari hanno una lunga tradizione di crimini e di repressioni sanguinose sin da quando nel 1962 il generale Ne Win si insediò al potere con un colpo di stato che diede il via all’esperimento della “via birmana al socialismo”. Come tutte le forme di “socialismo reale” anche questa ha lasciato in eredità solo violenza e povertà. E le promesse di una transizione democratica, iniziate nel 1990, si sono sempre arenate di fronte ai trionfi elettorali della LND, che ha trovato in Aung San Suu Kyi una leader iconica, essendo lei figlia del padre dell’indipendenza birmana Aung San.

Suu Kyi fu dunque messa agli arresti già nel 1989, e vi è rimasta quasi ininterrottamente fino al 2010, un periodo che ha visto crescere la solidarietà internazionale intorno a lei e alla sua battaglia per la democrazia e il rispetto dei diritti umani. Tanto che nel 1991 le fu assegnato il Premio Nobel per la Pace.
Non che la pressione politica internazionale abbia ottenuto molto, vista anche la protezione della Cina comunista per i militari al potere; però la Birmania – poi ribattezzata Myanmar dalla giunta militare – faceva notizia, anche per merito di Aung San Suu Kyi, la paladina della democrazia che non si piegava alla violenza e al sopruso dei militari.

Ma oggi la stella di Aung San Suu Kyi, agli occhi di chi “influenza” la stampa internazionale, si è appannata. E quindi anche la brutale repressione dei militari birmani, guidati dal generale Min Aung Hlaing, contro la popolazione civile non resiste sui principali siti internazionali più di qualche ora in occasione degli episodi più violenti. E anche la condanna da parte dei governi più importanti (Usa, Regno Unito, Unione Europea) sebbene ci sia stata formalmente, manca di vera convinzione.

Tutta colpa del caso Rohingya, la minoranza islamica che vive nello stato settentrionale del Rakhine, che da anni subisce la dura repressione dell’esercito birmano. Si calcola che siano circa un milione i Rohingya che hanno trovato rifugio nel vicino Bangladesh. I problemi, come per le altre minoranze che vivono in Birmania, hanno radici lontane e la giunta militare li ha sempre considerati un corpo estraneo nella società birmana ma lo scontro è diventato un caso internazionale soprattutto dal 2017, in seguito a un’altra ondata repressiva dei militari e alla vicenda di alcune barche di profughi che sono restate per mesi in mare perché nessuno stato nei dintorni era disposto ad accogliere questi profughi.

Anche papa Francesco, che ha incontrato una delegazione Rohingya durante la sua visita in Bangladesh nel 2017, ha fatto sentire più volte la sua voce per questo popolo. E parallelamente, Aung San Suu Kyi, è stata accusata a livello internazionale di non fare nulla per difendere i diritti umani dei Rohingya, e anzi di essere complice delle nefandezze dell’esercito.

Suu Kyi infatti, dal 2016, nel quadro di un lento processo di democratizzazione del Myanmar, aveva assunto la carica di Consigliere di Stato, uno dei ruoli istituzionali più importanti. Da qui la richiesta da più parti di ritirarle il Premio Nobel per la Pace e altre onorificenze.
Così oggi il fatto che i militari abbiano ripreso il controllo pieno del potere, cancellando anche quei pochi passi fatti verso la democrazia e organizzando la solita repressione del popolo, mettendo agli arresti Aung San Suu Kyi, non scalda il mondo dell’informazione. Alla fine, si ragiona, è uno scontro tra “cattivi”, anche se i militari lo sono di più. E la condanna del colpo di stato e della repressione resta così poco più che formale.

È il solito vizio di giudicare qualsiasi cosa accada nel mondo secondo gli interessi e le sensibilità oggi prevalenti in Occidente. Dunque, oggi in Occidente il politicamente corretto impone la condanna di una presunta islamofobia? Ecco che allora una minoranza islamica nel lontano Myanmar diventa il caso perfetto da assumere per sentirsi giusti, dimenticando che nel Myanmar ci sono una decina di minoranze etniche che da decenni vengono combattute dal governo centrale, inclusi Kachin e Karen dove c’è una importante concentrazione di cristiani. E non considerando altri fattori che rendono complessa la situazione, due su tutti: anzitutto storicamente tra i Rohingya c’era un forte movimento jihadista e indipendentista, che ancora resiste; l’ultimo ciclo di repressione militare è stato scatenato nel 2017 proprio in risposta a una serie di attacchi dell’Esercito di salvezza Rohingya contro stazioni di polizia. Certo, nulla giustifica la violenta repressione e le violenze contro i profughi, ma la realtà è più complessa di quanto si voglia far credere.

In secondo luogo è tutta da verificare la posizione di Aung San Suu Kyi in materia: non si considera infatti che l’Esercito birmano non ha ceduto nulla del potere in fatto di sicurezza interna e lo spazio di manovra di Suu Kyi era praticamente nullo e comunque molto fragile in generale, come dimostra il colpo di stato del 1° febbraio.

Ma ormai per la comunità internazionale Aung San Suu Kyi è colpevole e dunque il regime militare può tranquillamente andare avanti per la sua strada. E suor Nu Tawng, quel suo gesto eroico avvenuto guarda caso a Myitkyna, capitale dello stato del Kachin, sarà ricordata per qualche giorno da un po’ di persone sui social ma non provocherà nessun movimento di opinione internazionale. Nessuno si inginocchierà in segno di solidarietà, nessuno urlerà Burmese Lives Matter: in fondo non è afro-americana, non è una profuga, non è immigrata, non è Lgbt, non è islamica, anzi è addirittura una suora cattolica che veste in modo tradizionale (così perde anche la solidarietà dell’intellighenzia cattolica). Peggio di così…