Muore mons. Kulli, frutto dei martiri nell'Albania comunista
Il giovane vescovo di Sapë è morto improvvisamente per un infarto. Battezzato in segreto sotto il regime, la sua vocazione era sbocciata grazie alle prime Messe celebrate dopo la caduta del comunismo dai sacerdoti sopravvissuti alla persecuzione.
Era un "frutto" del martirio patito per decenni dall'Albania sotto il regime comunista mons. Simon Kulli, vescovo di Sapë dal 2017, morto il 29 novembre per un infarto a soli 52 anni. Il presule era noto anche nel nostro Paese, grazie ai legami con varie realtà italiane, per esempio nella Marsica, in Abruzzo, dove il vescovo di Avezzano mons. Giovanni Massaro ricorda il confratello scomparso e i vincoli tra le rispettive diocesi come «un dono prezioso da custodire e accrescere, nel solco tracciato dall'instancabile opera di don Antonio Sciarra, il sacerdote marsicano che ha speso la sua vita in terra d'Albania» (l'opera del missionario fidei donum è riportata anche nel sito della diocesi di Sapë).
Il 2 dicembre sono stati celebrati i funerali nella cattedrale di Santa Teresa di Calcutta a Vau i Dejës, dove Simon Kulli era nato il 14 febbraio 1973 e battezzato pochi giorni dopo, di nascosto e in piena persecuzione. E non da un prete ma da una suora (il battesimo, infatti, può essere amministrato anche da un laico). Lo raccontava lui stesso nel febbraio di quest'anno in una intervista ad Aiuto alla Chiesa che Soffre, rievocando il rigido inverno comunista in cui erano germogliate la sua fede e la sua vocazione. Un clima così duro («c'era una povertà tremenda e il regime sfruttava tutti ... siamo cresciuti senza fede, senza Cristo e senza religione») da definire «un grande miracolo che i miei nonni mi abbiano trasmesso la fede», naturalmente in segreto, poiché sotto il regime comunista albanese «non si poteva nemmeno fare il segno della croce».
Anche suor María Kaleta dovette battezzarlo di nascosto, altrimenti – proseguiva mons. Kulli – «i miei nonni e il resto della mia famiglia sarebbero stati gettati in prigione». La religiosa stimmatina faceva da tramite fra i fedeli e i sacerdoti imprigionati, che «celebravano clandestinamente e poi consegnavano le ostie consacrate a suor Maria, nascoste tra i panni sporchi, perché le portasse ai malati».
A questi «martiri viventi» mons. Kulli doveva anche la sua vocazione, «nata vedendo per la prima volta uno di quei vecchi sacerdoti celebrare la Messa in latino nella mia parrocchia. Era la prima Messa da quando la fede era di nuovo libera in Albania. (...) Vedendo quel sacerdote sofferente, che faticava a celebrare la Messa, curvo sull'altare per via degli anni di prigionia, ho pensato che avrei potuto essere al posto suo». Siamo all'inizio degli anni Novanta e Simon Kulli, nel 2000, sarà uno dei primi sacerdoti ordinati nell'Albania post-comunista, "figli" di quella generazione di sacerdoti (tra cui il cardinale Ernest Simoni) che hanno pagato a caro prezzo la sequela di Cristo sotto uno dei più duri regimi del Novecento. Un'eredità di cui mons. Kulli aveva viva consapevolezza: «Anche se non sono mai stato in prigione, ho sperimentato cosa significasse vivere in un Paese in cui l'uomo è privato del suo principale sostentamento: la fede».

