Mugabe prepara le elezioni reprimendo i cristiani
Si vota entro l'anno, ma l'80% della popolazione è disoccupata, un quarto è espatriata, il PIL è tra i più bassi del mondo e il Paese campa solo di aiuti.
Se lo status di “rifugiato economico” venisse riconosciuto dal diritto internazionale, probabilmente milioni di africani rientrerebbero nella definizione - persone costrette a espatriare a causa di condizioni permanenti e generalizzate di sottosviluppo - e meriterebbero asilo. Si può infatti negare lo stato di pericolo costante di chi vive con meno di un dollaro al giorno? In questa situazione si trova attualmente quasi il 53% della popolazione africana, secondo le stime ufficiali, e i tassi di disoccupazione astronomici lo confermano. Il primato spetta alla Liberia con un tasso di disoccupazione dell’85%, seguita dallo Zimbabwe con l’80% e dal Burkina Faso con il 77%.
Sono valori talmente elevati che si penserebbe non possano peggiorare. Invece il Burkina Faso in questi mesi subisce le ripercussioni negative della crisi politica in corso dal dicembre 2010 nella vicina Costa d’Avorio. Le attività commerciali del paese devono molto alle infrastrutture della Costa d’Avorio e nelle piantagioni di cacao e di caffè ivoriane lavorano da tre a quattro milioni di burkinabè, una parte dei quali hanno perso il lavoro o, comunque, per sottrarsi alle violenze post elettorali, si sono visti costretti a rientrare in patria. Benché non esistano ancora dati esatti a riguardo, trattandosi di un’emergenza in atto, è certo che i nuovi arrivati vanno per lo più ad aggiungersi al numero dei disoccupati, senza contare il danno del venir meno delle rimesse degli emigranti.
In Zimbabwe lo scenario è ancora più drammatico. L’Istituto per lo sviluppo economico e il lavoro ha appena pubblicato i risultati di una ricerca da cui risulta che in un anno (dal dicembre 2009 al dicembre 2010) il tasso di disoccupazione giovanile è aumentato del 10%, passando dal 70 all’80%. Gli ultimi due anni avrebbero dovuto essere quelli della ripresa economica, promessa dal governo di unità nazionale formato nel 2008 per porre fine alla cruenta crisi post elettorale durata mesi, causata dal rifiuto del presidente Robert Mugabe [nella foto] di ammettere la sconfitta elettorale subita. Invece i partiti che si spartiscono il potere - lo Zanu-Pf del presidente Mugabe, l’Mdc-T, del primo ministro Morgan Tsvangirai e l’Mdc-M, del vice primo ministro Arthur Mutambara - non hanno fatto che contendersi i ministeri chiave, le cariche politiche e quelle amministrative lasciando quasi immutata la situazione economica e sprecando ancora una volta investimenti e capitali messi a disposizione dalla cooperazione internazionale allo sviluppo. Anzi, uno dei pochi provvedimenti di rilievo adottati dall’esecutivo prevede che le imprese economiche siano almeno al 51% di proprietà zimbabwana il che, a giudizio della maggior parte degli osservatori, disincentiva gli investimenti stranieri. In altre parole, invece di rimediare alla totale bancarotta degli scorsi anni, provocata dal crollo delle attività produttive innescato dall’esproprio di migliaia di fattorie ordinato da Mugabe all’inizio del decennio, il governo attuale aggiunge ulteriori fattori di incertezza e instabilità.
Va ricordato che la crisi economica del Paese, un tempo esportatore di materie prime pregiate e granaio dell’Africa australe, è tale da aver indotto in pochi anni tre milioni di persone, un quarto della popolazione, a espatriare e da far dipendere circa quattro milioni di zimbabwani dagli aiuti alimentari e sanitari forniti dalla comunità internazionale. Il Prodotto interno lordo pro capite dello Zimbabwe è uno dei più bassi del mondo: 187 dollari all’anno.
La situazione si potrebbe ulteriormente aggravare. Con l’approssimarsi di un nuovo confronto elettorale, forse entro la fine del 2011, le forze dell’ordine - di fatto un apparato repressivo al servizio del presidente Mugabe - hanno già incominciato a serrare le fila. Una notizia in particolare desta preoccupazione. L’8 e il 9 aprile la polizia è intervenuta con manganelli e gas lacrimogeni a disperdere degli incontri di preghiera per la pace organizzati nella Chiesa del Nazareno della capitale Harare da Christian Alliance, un’associazione ecumenica nota per le sue battaglie contro le violazioni dei diritti umani. Secondo la versione fornita dalle forze dell’ordine, la presenza di membri del partito Mdc-T indicava che la veglia di preghiera era un pretesto per coprire un incontro politico non autorizzato.