Mosul, lite fra turchi e iracheni prima della battaglia
E' prossima la battaglia per la riconquista di Mosul, la principale città irachena nelle mani dell'Isis. Ma prima ancora che si sparino i primi colpi, il governo turco e quello iracheno si scambiano accuse reciproche. Perché i turchi, stavolta alleati con i curdi locali, hanno una base a Bashiqa e il governo iracheno non li vuole.
Lo dicono tutte le parte coinvolte: la battaglia di Mosul sta per cominciare. Lo annuncia il premier iracheno Haider al Abadi agli abitanti della seconda città del Paese (gli stessi abbandonati due anni dall'esercito di Baghdad nelle mani dell'Isis); lo confermano i vertici dell'esercito americano, in cerca di un risultato da sbandierare in Medio Oriente per la loro coalizione internazionale; lo sostengono i peshmerga curdi, che avanzano da nord e da est verso la capitale del sedicente Califfato. E poi c'è addirittura chi - come il presidente turco Erdogan - parla apertamente di una data che sarebbe stata concordata per l'inizio delle operazioni: il 19 ottobre.
Solo che c'è un piccolo problema: al governo iracheno quest'attivismo di Ankara pure sul fronte iracheno non va per niente giù. E così ieri è scoppiata l'ennesima tempesta diplomatica che mostra quanto tutto il castello poggi su fondamenta instabili. L'epicentro di questo nuovo scontro sta nella base di Bashiqa, nel Kurdistan iracheno. In questa località a circa 25 chilometri a nord di Mosul dal dicembre scorso è presente un contingente dell'esercito turco, ufficialmente lì con funzioni di addestramento dei peshmerga e di alcuni gruppi locali sunniti arruolati sempre per l'annunciata battaglia contro l'Isis. Turchi in Kurdistan? Sì, perché nelle innumerevoli giravolte e divisioni della regione c'è anche la spaccatura interna ai curdi, con il governo della regione autonoma irachena guidato da Masoud Barzani che - al contrario dei curdi siriani - coltiva buoni rapporti con Ankara, anche perché sa che la Turchia è l'unico sbocco alternativo a Baghdad per i ricchi giacimenti di petrolio del nord dell'Iraq.
Fin dall'inizio il governo centrale di al Abadi aveva contestato la presenza delle truppe turche a Bashiqa, definendola una violazione della sovranità irachena. Accompagnata per di più dai raid aerei di Ankara contro le basi del Pkk sulle montagne di Qandil. Washington ha provato a mediare, ma il nodo sta ovviamente venendo al pettine con l'avvicinarsi dell'ora x per Mosul. Perché in gioco ci sono ovviamente le ambizioni di ciascuno sul futuro della seconda città irachena.
Così - quando la settimana scorsa il parlamento turco ha approvato il prolungamento di un anno della presenza dei propri militari in Iraq (oltre che in Siria) - al Abadi ha fatto votare alla propria assemblea un ordine del giorno che chiede di «espellere le forze turche dal Paese». E ieri è stato il premier in prima persona a far la voce grossa, richiamando l'ambasciatore: «Abbiamo chiesto più di una volta ai turchi di non intervenire negli affari iracheni - ha dichiarato -. Temo che l'avventura turca possa trasformarsi in una guerra regionale». Parole a cui il ministero degli Esteri turco ha risposto per le rime, definendo «settario» l'approccio del governo iracheno alla liberazione della grande città del nord.
Ankara punta il dito contro la preponderanza delle milizie sciite e curde nello schieramento che si prepara a marciare su Mosul e vuole ritagliarsi un ruolo di garanzia per la minoranza turcomanna e più in generale per gli arabi sunniti, che sono la maggioranza della popolazione della città. Ma gli sciiti ovviamente non ci stanno; anche perché - non più tardi di domenica – Erdogan stesso ha utilizzato toni non meno settari, affermando in un'intervista a una tv saudita che «quando Mosul sarà liberata dall'Isis dovranno rimanervi solo arabi sunniti, turcomanni e curdi sunniti».
Appare del tutto evidente che anche in Iraq c'è ormai una battaglia nella battaglia che si sta combattendo sul dopo Isis. Con un'offensiva che già per sé si regge su equilibri estremamente delicati: per strappare nel più breve tempo possibile Mosul al Califfato, limitando le sofferenze alla popolazione civile ostaggio dei jihadisti (si teme qualcosa come tra i 750.000 e il milione di profughi, tenendo conto dei numeri degli abitanti della città) è fondamentale il coordinamento tra i diversi fronti. Ma già Washington ha dovuto mediare a lungo tra Baghdad ed Erbil sulla questione delle esportazioni di petrolio, portando le parti a un'intesa (fragile) siglata appena pochi giorni fa. Il rischio concreto dunque è che anche nella tanto annunciata battaglia di Mosul l'Isis possa di nuovo avvantaggiarsi di questo ginepraio. E rivela come il problema - in Siria come in Iraq - resti sempre lo stesso: gli interessi delle potenze entrate a mani basse coi loro interessi in questi conflitti.
Si capisce allora perché, anche in queste ore, il patriarca caldeo Louis Raphael Sako insista molto sull'unità degli iracheni. Al punto da non scaldarsi affatto di fronte all'attivismo dei gruppi che vorrebbero la nascita di un'entità autonoma cristiana nella Piana di Ninive. «In questo momento - ha dichiarato ieri ad AsiaNews - è meglio essere prudenti e non parlare di questi temi. Bisogna aspettare gli sviluppi a Mosul e nella piana. Ci sono già tante guerre e divisioni fra i vari gruppi irakeni, mentre l’essenziale è difendere il principio di unità». Quello che chiediamo, ha aggiunto, è di «liberare i territori e garantire il ritorno della gente nelle proprie case». Un ritorno che secondo il patriarca caldeo per divenire realtà avrà comunque bisogno di tutele internazionali: servirà - spiega - «una presenza delle Nazioni Unite, magari sotto forma dei caschi blu dell'Onu, per garantire la sicurezza e il controllo».