Mosul è nelle mani di Al Qaeda
Il più radicale dei gruppi jihadisti che combattono nella Mezzaluna Fertile, l'esercito dello Stato Islamico dell'Iraq e del Levante. si è impadronito di Mosul, la seconda città irachena, abitata ancora da una minoranza cristiana.
Alla fine hanno preso Mosul, la seconda città dell'Iraq. Da ieri è nelle mani dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante, la formazione islamista che dall'estate scorsa ha già trasformato la provincia di Raqqa, nel nord della Siria, in un vero e proprio incubo per chiunque vi abita. Per capirci: sono sempre quelli delle bandiere nere di al Qaeda sul tetto delle chiese, dell'applicazione della jizya - il tributo imposto ai non musulmani per la loro «protezione» - degli attivisti fatti sparire nelle loro carceri (il gesuita italiano padre Paolo Dall'Oglio - sulla cui sorte anche ieri si è ripetuto il tragico balletto di voci e smentite - in realtà è solo uno dei tanti), delle crocifissioni di chi osa opporsi alla loro dottrina. Ieri hanno assunto il controllo anche di Mosul, con l'esercito iracheno di Nuri al Maliki dileguatosi praticamente nel nulla. Così i miliziani qaedisti si sono impadroniti di nuove armi pesanti e addirittura elicotteri (che ora non mancheranno di utilizzare in Siria) e sono andati subito a spalancare le porte delle patrie galere, all'interno delle quali hanno prontamente reclutato più di duemila nuovi miliziani.
Sono i nuovi padroni di Mosul, mai uscita dal caos dai giorni tragici aperti dalla guerra irachena del 2003. Ironia della sorte: proprio tre giorni fa ricorreva l'ottavo anniversario dell'eliminazione di Abu Musab al-Zarqawi, il terrorista giordano che gli americani definivano il capo di al Qaeda in Iraq. Lo Stato islamico dell'Iraq e del Levante è una filiazione della formazione jihadista che lui aveva messo in piedi; realtà che oggi - complice la guerra in Siria, che ha contribuito in maniera decisiva a rigettare anche l'Iraq nel caos più assoluto - è molto più forte di allora. Perché la presa di Mosul è la conferma che quel loro nome bizzarro preso parecchio sottogamba in Occidente - è più semplice chiamarli «qaedisti» - grazie al vuoto di iniziativa politica intorno alla crisi siriana, è diventato un obiettivo a portata di mano per questo gruppo di miliziani fanatici, infarcito da reduci della Cecenia. Con il controllo di Raqqa e Mosul di fatto nelle loro mani c'è già una vasta area tra la Siria e l'Iraq; e ieri pomeriggio correvano voci allarmanti di un'ulteriore avanzata verso Tikrit. Certo, andrà verificata nei prossimi giorni la capacità di resistere a un probabile contrattacco dell'esercito iracheno o (più probabile) delle milizie curde. Ma anche dovessero essere costretti a ritirarsi, la campagna di Mosul per loro sarà comunque stato uno strepitoso successo.
Intanto la grande città del nord dell'Iraq conosce il volto consueto di tutte queste guerre: una nuova ondata di profughi. Ne segnalavano già duecentomila ieri sera in marcia in direzione Nord, nella provincia di Dohuk che fa parte della regione autonoma del Kurdistan. Tra loro ci sono certamente anche tanti cristiani di Mosul, quelli che più di tutti hanno vissuto la sofferenza del martirio in questo decennio terribile. Perché Mosul è la città dell'arcivescovo caldeo Paulos Faraj Rahho, ritrovato ucciso nel 2008 dopo essere stato rapito, e di padre Ragheed Ganni, giovane sacerdote suo collaboratore che era già stato ammazzato l'anno precedente. Perché anche prima che si chiamassero Stato islamico dell'Iraq e del Levante i jihadisti a Mosul hanno colpito duro contro i cristiani. E così molti caldei erano già scappati verso la piana di Ninive, l'enclave poco lontana dove qualcuno sogna di concentrare i cristiani in una sorta di ghetto.
A Mosul è rimasto il giovane arcivescovo che ha preso il posto di mons. Rahho: il quarantacinquenne Emil Shimoun Nona. Che giusto qualche giorno fa - in un'intervista ad AsiaNews - aveva consegnato parole molto amare: «Siamo sicuri che la Chiesa di tutto il mondo prega per l'Iraq» - aveva detto (con un po' tanto ottimismo) - ma l'Occidente e i suoi governi sembrano aver «dimenticato» il dramma che vive la sua popolazione; come se ormai «fosse normale sentire tutti i giorni di morti, attentati, violenze». Parole scivolate via come tutte le altre. Perché dieci anni dopo - appunto - l'Iraq non fa più notizia.
Il risultato è che il nuovo santuario di al Qaeda non è più sulle montagne di Tora Bora, ma nel bel mezzo della mezzaluna fertile. E può contare sulle armi fresche arrivate a fiumi in Siria negli ultimi tre anni. Solo che c'è un ultimo dettaglio singolare: adesso anche i sauditi, gli Emirati del Golfo e la Turchia pare comincino a preoccuparsi. Sì, perché forse ci sono arrivati anche loro a capire che gente come Omar al-Shishani - il comandante militare dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante - non è uno che poi ubbidisce docilmente alle loro direttive. E con un personaggio così in circolazione dietro casa anche la stabilità a casa loro può diventare a rischio. Così negli ultimi giorni è tutto un fiorire di iniziative: l'emiro del Qatar ha lanciato un appello per un cessate il fuoco in Siria, i sauditi si mettono a dare la caccia ai jihadisti, il presidente iraniano Rouhani è stato ricevuto con tutti gli onori in Turchia. Domanda: vuoi vedere che non era così una brutta idea sedersi intorno a un tavolo con l'Iran per trovare una via d'uscita? Ci fossero arrivati cinque mesi fa - invece di far naufragare la conferenza di Ginevra 2 - e Washington non li avesse ancora una volta assecondati, forse oggi non saremmo qui a chiederci che cosa fare con lo Stato islamico dell'Iraq e del Levante a Mosul.