Mons. Paprocki "promuove" la preghiera a San Michele
Fino al 1964 le Messe si concludevano con l'invocazione all'Arcangelo. Inopportuna per un prete, sempre valida per il vescovo di Springfield.
Scambio epistolare sulle pagine del Wall Street Journal tra un prete in pensione di Cleveland, padre Gerald J. Bednar, e il vescovo di Springfield (Ilinois), mons. Thomas Paprocki. Al centro dello scambio (riportato da Jonah McKeown su CNA) la preghiera a San Michele Arcangelo con cui si concludeva la Messa fino al 1964, quando la prima ondata di riforme liturgiche decretò la soppressione delle cosiddette "preci leonine", che tuttavia nulla vieta di recitare ad libitum (e che restano tuttora in vigore laddove si celebra secondo la liturgia tradizionale).
Mons. Paprocki difende quell'invocazione che invece per padre Bednar «interferisce con l’integrità della Messa», poiché «conclude la liturgia con una devozione privata, una petizione a un santo». Benché «dovremmo, con tutti i mezzi, chiedere il suo aiuto [di San Michele]», spiega il sacerdote, «i credenti dovrebbero accettare la presenza del Signore nell'Eucaristia come loro protezione primaria contro la malvagità e le insidie del diavolo». Il vescovo di Springfield replica che non interferisce con la liturgia, poiché «viene recitata dopo la Messa, cosa che il sacerdote e la gente sono liberi di fare» e che «non è una devozione privata quando viene pregata pubblicamente». Aggiunge inoltre che se «il Rev. Bednar ha ragione nel dire che il diavolo non ha alcuna influenza nel regno di Dio, noi non vi siamo ancora pervenuti. Non fa male pregarla insieme invocando l'intercessione di San Michele per difenderci nelle nostre battaglie spirituali».
Quella preghiera non è più obbligatoria ma è tutt'altro che passata di moda, anzi raccomandata da San Giovanni Paolo II e più recentemente da Papa Francesco.