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RUSSIA CRISTIANA

Modelli di santità nella Chiesa del '900

Anche in un'epoca scristianizzata, brilla l'esempio di chi ha dimostrato che in Cristo trovano compimento tutte le aspirazioni umane.

Cultura 29_10_2011
Santi

Anticipiamo qui sotto l'intervento di Pigi Colognesi al Convegno internazionale promosso da Russia Cristiana che si svolge questo week end tra Milano e Seriate (Bg) dal titolo: "Crisi dell'umano e desiderio di felicità. Che cosa ha da dire la Chiesa oggi?".

 

Il santo è un uomo

Don Luigi Giussani, figura significativa e profetica della Chiesa cattolica del XX secolo, ha scritto: «Il santo è un uomo. Vi è una accezione della parola santità la quale si rifà ad una immagine di eccezionalità che una aureola esprime. Eppure il santo non è né un mestiere di pochi né un pezzo da museo. La santità va vista in ogni tempo come la stoffa della vita cristiana. Pur dentro la parzialità di certe immagini rimane la traccia di una idea fondamentalmente esatta: il santo non è un superuomo, il santo è un uomo vero. Il santo è un vero uomo perché aderisce a Dio e quindi all’ideale per cui è stato costruito il suo cuore, e di cui è costituito il suo destino»[1]. «Il santo è un uomo»; questa definizione è solo apparentemente sbrigativa e semplicistica. Un episodio raccontato dallo stesso don Giussani può aiutarci a intravvedere la profondità innovativa di simile impostazione e le sue implicazioni operative: «I primi mesi di Gioventù Studentesca [il movimento giovanile da cui sarebbe nata Comunione e Liberazione] mi hanno fatto fare una conferenza a trecento preti, e nel dibattito un giovane prete domandò: “Lei a un giovane prete cosa consiglierebbe innanzitutto, come prima cosa, a cosa consiglierebbe di stare attento, per fare il suo mestiere insomma”. Gli ho detto: “Guardi, che sia uomo”»[2].

La santità, dunque, è la realizzazione, il compimento dell’umanità di ogni singola persona. Chiamandosi «santi» i primi cristiani indicavano la loro separatezza, dovuta all’elezione di Dio, dalle logiche mondane; ma una separatezza che significa il compimento in Cristo delle aspirazioni umane, non una loro repressione o sublimazione. Basti pensare a come san Paolo ha approcciato gli smaliziati ascoltatori dell’Areopago di Atene: «Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dèi. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere [cioè l’aspirazione suprema della vostra umana religiosità in ricerca], io ve lo annunzio»[3]. Si pensi, poi, a come il famoso retore Mario Vittorino ha annunciato pubblicamente la sua conversione: «Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo»[4].

 

La santità in epoca cristiana

Il santo è un uomo «vero». In tutte le civiltà di carattere ultimamente umanistico, cioè impostate sulla centralità della persona umana e sulla consapevolezza della sua singolare destinazione alla felicità, la questione antropologica fondamentale è stata quella di definire i contenuti dell’aggettivo «vero» da attribuire all’uomo. Così è stato per la civiltà occidentale, fino a che è stata fondamentalmente impregnata e determinata dal cristianesimo. In simile contesto la santità ha coinciso di fatto con l’identificazione delle caratteristiche che fanno di un uomo un uomo «vero». Ne consegue che il modello di santità proposto dalla Chiesa Cattolica, almeno fino alla metà del XX secolo, ha avuto l’aspetto della sottolineatura di virtù indicate come indispensabili per raggiungere il livello compiuto del’umanità, cioè, appunto, la santità. Tipica espressione di tale modo di procedere è stata l’individuazione di modelli di santità specifici per ogni categoria di persone; per i ragazzi maschi – per esemplificare partendo da quanto ricordo della mia formazione cristiana - si sottolineava la purezza di san Luigi Gonzaga e per le femmine il sacrificio per la castità di santa Maria Goretti, per gli operai san Giuseppe lavoratore e per i politici san Tommaso Moro. L’accento è stato posto, dunque, sulla eccezionalità del santo. Non ci interessa indagare in questa sede il fatto che una simile impostazione ha rischiato facilmente di cadere in una riduzione moralistica; ciò che importa ritenere è il fatto che il santo è stato comunque inteso come vertice di una umanità che, a livello magari più elementare, era però accessibile a tutti.

 

La santità nell’epoca della scristianizzazione

«Ma sembra che qualcosa sia accaduto che non è mai / accaduto prima: sebbene non si sappia quando / o perché, o come, o dove. / Gli uomini hanno abbandonato Dio non per altri / dei, dicono, ma per nessun Dio»[5]. È il fenomeno della scristianizzazione, che ha investito la Chiesa in modo pesante e, a partire dalla metà del secolo scorso, sempre più evidente. Non mi soffermo a compiere un’analisi delle cause e delle modalità espressive della scristianizzazione; per il nostro argomento basti considerare che essa si inserisce nell’alveo di un ampio fenomeno culturale per cui la consistenza dell’umano, l’esistenza stessa dell’io vengono messe in discussione. Lo documenta in modo impressionante un brano di Philip Roth: «Tutto ciò che posso dirti con certezza è che io, per esempio, non ho un io, e che non voglio o non posso assoggettarmi alla buffonata di un io. Quella che ho al posto dell’io è una varietà di interpretazioni in cui posso produrmi, e non solo di me stesso: un’intera troupe di attori che ho interiorizzato, una compagnia stabile alla quale posso rivolgermi quando ho bisogno di un io, uno stock in continua evoluzione di copioni e di parti che formano il mio repertorio. Ma sicuramente non possiedo un io indipendente dai miei ingannevoli tentativi artistici di averne uno. E non lo vorrei. Sono un teatro e nient’altro che un teatro»[6].

Il dramma non è solo, dunque, che non si crede più al Dio cristiano, ma che non si crede più a nessun dio; anzi che non si crede a nulla che esorbiti dalla immediatezza della soddisfazione garantita dagli idoli, che Eliot, nei versi immediatamente successivi a quelli citati, ha sintetizzato in «Usura, Lussuria e Potere». Più profondamente, questo significa che non si pone più neppure la domanda su che cosa sia l’io; non è tema in discussione, non è questione che valga la pena affrontare. Personalmente mi sono reso conto con evidenza di questa trasformazione quando ho fatto l’esperienza di insegnare religione. Io cercavo di far emergere nei miei studenti le inestirpabili domande religiose, cioè quelle più razionali ed umane: da dove vengo? dove vado? cos’è la verità? dove posso trovare la giustizia? E un giorno un mio studente mi ha risposto infastidito: «Professore, secondo me lei si fa un sacco di domande inutili». Ecco, «inutili»; la religione è inutile per la vita perché la persona crede di non avere più il problema del senso della propria umanità. Ovviamente la domanda religiosa resta inestirpabile anche per l’uomo contemporaneo scristianizzato, ma il contesto culturale e la conseguente esperienza esistenziale tende a negare la problematica stessa della verità dell’io.

Ciò ha un riverbero decisivo sulla questione della santità. Essa non può più essere una specie di supplemento eccezionale di un umano dato per acquisito nelle sue dinamiche essenziali; essa è chiamata a dimostrare che l’umanità in quanto tale è possibile, che l’io esiste in modo differente da come esistono un cane o una bottiglia ed ha una destinazione infinta. Insomma, la santità è chiamata a dimostrare la possibilità stessa dell’umanità: «Il santo è un uomo».

 

Alla ricerca del volto umano

Il problema posto dalla santità nell’attuale contesto culturale è, dunque, un problema squisitamente antropologico: il cristiano, che è santo per vocazione, è chiamato a mostrare che l’umanità è possibile, che l’io non è pura finzione. Dobbiamo quindi chiederci, seppure sommariamente, quali sono le caratteristiche dell’io che la mentalità attuale ha – per usare un termine caro al linguaggio postmoderno - «decostruito».

La prima questione è senza dubbio la consapevolezza del «dato». La mentalità in cui viviamo ci induce a pesare che ogni cosa – e quindi anche l’io – sia ultimamente un «prodotto» e per ciò stesso «artificiale». «Prodotto» è molto diverso da «dato»; quest’ultima parola indica che l’io è offerto a se sesso da una alterità misteriosa di cui non si conoscono i confini; la prima, invece, descrive un processo identificabile, un itinerario che un certo livello della materia ha dovuto percorrere per raggiungere il risultato della «produzione», appunto. Ma se l’io è il puro prodotto dei suoi antecedenti biologici, sociali e culturali, non si pone il tema della sua inalienabile unicità, della sua incoercibile libertà - essa, infatti non sarebbe garantita da nulla –, tantomeno della sua «verità».

In secondo luogo l’io è insopprimibile esigenza di significato, di completezza che deborda la soddisfazione momentanea. Esso infatti è rapporto con l’infinito, rispetto al quale non può che porsi in atteggiamento di attesa desiderosa. L’uomo è infatti inesauribile tensione al vero, al bello, al giusto, alla felicità; egli ha un «cuore» che desidera e la curiosità indomita del bambino ne è l’esempio più chiaro.

Il santo oggi è chiamato a «salvare», documentandola come possibile, questa grandezza dell’io. Se è vero, infatti, che tutto ci parla di una distruzione dell’umano, di una traumatica devastazione dell’io, è pur sempre vero, come ha osservato Ol’ga Sedakova, che prima di questa distruzione deve esistere qualcosa da distruggere, prima della frammentazione deve constatarsi una unità; se si parla di decadimento, bisogna presupporre che prima «doveva esserci qualcosa che poi è decaduto. Così come ai traumi infantili doveva pur precedere un soggetto non ancora traumatizzato, poiché non si può traumatizzare qualcosa che non esiste. Prima di decadere bisognava pur essere in una qualche posizione, da cui si è caduti in basso»[7]. Ed è molto interessante quanto la stessa Sedakova dice a proposito della santità: «Che cosa intendo parlando di impressione di santità? Provo a dirlo per quanto mi riguarda. Innanzitutto, incontrando questo sguardo ci vediamo visti fin nel profondo, e questo non fa alcuna paura, come ci sarebbe da aspettarsi, non a caso l’uomo si nasconde allo sguardo onniveggente di Dio, come fece un tempo Adamo. Al contrario, questo sguardo ci colma sconfinatamente di gioia e di vigore; là, nel profondo di noi, appare visibile qualcosa che è possibile amare, che è cosa buona, e che noi stessi non riuscivamo a immaginarci. Questo sguardo vede in noi la creatura divina. Probabilmente è questa la luce che vede in noi il santo: “Non avere paura, non avere paura di niente”, dice questo sguardo. Accanto ai santi noi ci sentiamo al centro del mondo. È una percezione sorprendente: la percezione che la morte è vinta e niente perisce».

 

Il Concilio Vaticano II

Il momento in cui la Chiesa Cattolica si è più acutamente e collegialmente interrogata sui cambiamenti della cultura contemporanea è senz’altro il Concilio Ecumenico Vaticano II. Nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen gentium, il Concilio ha fatto una profonda riflessione sul tema della santità. Prima ancora di ogni eccezionalità e di ogni specializzazione, diciamo così, per categoria, la Lumen gentium parla, nel capitolo V, di «Universale vocazione comune alla santità nella Chiesa». Vale la pena leggerne un passaggio: «I seguaci di Cristo, chiamati da Dio, non a titolo delle loro opere, ma a titolo del suo disegno e della grazia, giustificati in Gesù nostro Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere e perfezionare con la loro vita la santità che hanno ricevuto. Li ammonisce l’Apostolo che vivano “come si conviene a santi” (Ef 5,3), si rivestano “come si conviene a eletti di Dio, santi e prediletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di dolcezza e di pazienza” (Col 3,12) e portino i frutti dello Spirito per la loro santificazione (cfr. Gal 5,22; Rm 6,22). E poiché tutti commettiamo molti sbagli (cfr. Gc 3,2), abbiamo continuamente bisogno della misericordia di Dio e dobbiamo ogni giorno pregare: “Rimetti a noi i nostri debiti” (Mt 6,12). È dunque evidente per tutti, che tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità e che tale santità promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano»[8].

Indubbiamente una certa interpretazione del Concilio, che potremmo chiamare «rivendicativa», si è limitata ad osservare come questi testi abbiano contribuito a far uscire l’immagine del santo da una visione venata di clericalismo per renderla vicina al cristiano comune in quanto appartenente, in virtù del battesimo, al popolo di Dio. Ed è innegabile che i modelli di santità proposti per secoli alla memoria e all’imitazione del popolo di Dio fossero sbilanciati a favore di scelte di vita clericali: vescovi, monaci, frati e suore. A correzione di questa tendenza, dopo il Concilio è stata prestata particolare attenzione nel proporre, invece, modelli di santità più «normali»: padri e madri di famiglia, semplici lavoratori laici, giovani che hanno vissuto la vita comune dei loro coetanei.

Ma l’approfondimento del Concilio non è stato solo un riequilibrio sociologico, bensì l’affermazione radicale che la santità è la stoffa stessa della vita cristiana, la caratteristica dell’umanità del discepolo di Cristo e, per ciò stesso, proposta per tutti gli uomini. Infatti l’umano distrutto dalla mentalità dominante l’epoca della scristianizzazione potrà rinascere solo in un incontro con una umanità viva, una umanità – mi si passi l’espressione - umana. Lo afferma ancora don Giussani: «Dove si può ritrovare, dove si può trovare la persona? Io dove mi posso ritrovare? […] La persona ritrova se stessa in un incontro vivo, vale a dire in una presenza in cui si imbatte e che sprigiona un’attrattiva, [...] vale a dire provoca al fatto che il cuore nostro, con quello di cui è costituito, con le esigenze che lo costituiscono, c’è, esiste. Quella presenza ti dice: “Esiste quello di cui è fatto il tuo cuore; vedi, per esempio, in me esiste”»[9].

 

Martirio e verginità

Due sono i modelli di «io» che più direttamente e acutamente di altri possono richiamare l’uomo dimentico della propria dignità: il martire e il vergine. Lo afferma ancora la Lumen gentium: «Avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato la sua carità dando per noi la vita, nessuno ha più grande amore di colui che dà la vita per lui e per i fratelli (cfr. 1 Gv 3,16; Gv 15,13). Già fin dai primi tempi quindi, alcuni cristiani sono stati chiamati, e altri lo saranno sempre, a rendere questa massima testimonianza d’amore davanti agli uomini, e specialmente davanti ai persecutori. Perciò il martirio, col quale il discepolo è reso simile al suo maestro che liberamente accetta la morte per la salute del mondo, e col quale diventa simile a lui nella effusione del sangue, è stimato dalla Chiesa come dono insigne e suprema prova di carità. Ché se a pochi è concesso, tutti però devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce durante le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa»[10]. Non è quindi un caso che Giovanni Paolo II – che passerà alla storia, tra l’altro, per l’enorme quantità di canonizzazioni e beatificazioni realizzate – abbia mostrato una particolarissima attenzione ai martiri del Ventesimo secolo, nel quale ideologie di morte hanno tentato di schiacciare l’umano. Nell’omelia per la commemorazione dei testimoni della fede del secolo XX, il 7 maggio 2000, Giovanni Paolo II ha detto: «L’esperienza dei martiri e dei testimoni della fede non è caratteristica soltanto della Chiesa degli inizi, ma connota ogni epoca della sua storia. Nel secolo ventesimo, poi, forse ancor più che nel primo periodo del cristianesimo, moltissimi sono stati coloro che hanno testimoniato la fede con sofferenze spesso eroiche. Quanti cristiani, in ogni Continente, nel corso del Novecento hanno pagato il loro amore a Cristo anche versando il sangue! Molti Paesi di antica tradizione cristiana sono tornati ad essere terre in cui la fedeltà al Vangelo è costata un prezzo molto alto».

Il testo sopra citato della Lumen gentium, parla poi della verginità: «Parimenti la santità della Chiesa è favorita in modo speciale dai molteplici consigli che il Signore nel Vangelo propone all’osservanza dei suoi discepoli. Tra essi eccelle il prezioso dono della grazia divina, dato dal Padre ad alcuni (cfr. Mt 19,11; 1 Cor 7,7), di consacrarsi, più facilmente e senza divisione del cuore (cfr. 1 Cor 7,7), a Dio solo nella verginità o nel celibato. Questa perfetta continenza per il regno dei cieli è sempre stata tenuta in singolare onore dalla Chiesa, quale segno e stimolo della carità e speciale sorgente di fecondità spirituale nel mondo». È importante notare che la valorizzazione conciliare della verginità consacrata non coincide con il ritorno del privilegio alla forma clericale della vita cristiana. Da questo punto di vista è estremamente importante il fenomeno della consacrazione nella verginità di persone che continuano a vivere la loro esistenza «normale», come tutti gli altri battezzati e come tutti gli uomini. Essi vivono in case come tutti gli altri, svolgono lavori comuni, non si differenziano in nulla dagli altri, se non per la consapevolezza che la fede ricevuta è la più perfetta realizzazione dell’umano. Queste forme profetiche documentano che la santità non è, appunto, una aggiunta estrinseca all’umano che, quindi, ha bisogno di forme, abiti, luoghi particolari; anzi essa si può e deve vivere nelle condizioni e nelle modalità della vita di tutti. Infatti è proprio nella vita «normale» che l’uomo contemporaneo rischia di perdere se stesso; ma questa quotidianità è anche il luogo in cui egli può ricevere la proposta esemplificata della vita nuova portata da Cristo.

Da figlio della diocesi ambrosiana, mi piace ricordare che il nesso tra martirio e verginità è stato a lungo meditato da sant’Ambrogio. Egli si è trovato a guidare una Chiesa che aveva ormai superato la fase della persecuzione cruenta; il cristianesimo non solo era accettato dal potere politico imperiale, ma era addirittura diventato religione di stato. Da qui la sua domanda: Come si può testimoniare – martyréin - la novità cristiana in un contesto in cui il martirio fisico non è più immaginabile? Anzitutto, rispose, celebrando degnamente la memoria dei martiri che hanno reso possibile che la fede cristiana non morisse. E poi – qui sta la sua grande intuizione – attraverso quella forma incruenta di martirio che è la dedizione totale nella verginità; quella realizzata ad esempio da sua sorella Marcellina, per la quale ha scritto opere importanti.

 

Immedesimazione con Cristo

La santità è in ultima analisi immedesimazione con Cristo, che è Dio che ha assunto in pieno tutta la nostra umanità per salvarla. Lo conferma ancora don Giussani: «Nella fisionomia del santo l’affezione a Cristo costituisce il tratto più rispettabile e stupefacente, e il senso della sua Presenza l’aspetto più determinante. In un certo senso ciò che brama il santo non è la santità come perfezione; è la santità come incontro, appoggio, adesione, immedesimazione con Gesù Cristo»[11]. Solo al’interno di questa affezione che si immedesima si comprende adeguatamente il termine tradizionale che indica la santità - «imitazione di Cristo» –, senza che esso scada in logica moralistica.

Vorrei documentare questa «imitazione di Cristo» leggendo qualche pagina di Charles Péguy. Nel suo scritto polemico del 1911 Un nouveau théologien, M. Fernand Laudet[12], il cantore di Giovanna d’Arco si fa difensore della santità normale, che vive l’eroico nel quotidiano e il quotidiano come eroico, secondo l’acuta definizione che Giovanni Paolo II ha dato del movimento benedettino[13].

Péguy parla dei lavoratori: «Ogni atelier cristiano è un’immagine dell’atelier di Nazareth. Noi abbiamo tutti ricevuto la missione propria, per così dire, la comune vocazione propria di salvarci; e specialmente noi abbiamo tutti ricevuto la comune legge del lavoro. Nell’antica Legge la legge del lavoro, il comandamento del lavoro, procedeva come ogni servitù dalla caduta di Adamo. Era un castigo di giustizia. Gesù addossandosi per così dire questa legge, la legge dell’umanità, ne ha fatto una legge d’amore. Così è nato il lavoro nuovo. Oggi l’uomo che lavora è un uomo che fa come Gesù, che imita Gesù. Il lavoro quotidiano non è più una pena, non è più unicamente una pena, non è più principalmente una pena. È oggi una imitazione di un augusto lavoro quotidiano. Centinaia di migliaia di uomini, d’operai cristiani non hanno che questo da fare: la loro giornata. E colui che non ha lasciato il tavolo da lavoro e la pialla che per coricarsi per morire è colui che è più gradito a Dio».

Parla poi delle famiglie: «Tanto quanto ogni atelier cristiano è l’immagine dell’atelier di Nazareth, così ogni famiglia cristiana è un’immagine della famiglia di Nazareth; come ogni operaio cristiano lavora come Gesù, così ogni padre cristiano, ogni madre cristiana ama, istruisce, nutre, cresce i suoi bambini come Giuseppe e Maria amavano, istruivano, nutrivano, crescevano Gesù, ogni figlio cristiano ama, onora, nutre i parenti come Gesù amava, onorava, nutriva suo padre e sua madre. Il quarto comandamento ha rivestito nella legge d’amore, nella nuova legge, nella cristianità come una giovinezza nuova. È che in effetti un fatto nuovo si è prodotto per noi. Una famiglia modello ha per così dire funzionato davanti ai nostri occhi, una famiglia da imitare. Dopo quel giorno ogni padre e ogni madre cristiana è un’immagine di Giuseppe e di Maria, ogni figlio e ogni figlia cristiana è una immagine di Gesù. I bambini sono letteralmente alla scuola del piccolo Gesù. Gesù alla fin fine ha portato questo quarto comandamento alla sua piena realizzazione, a tutta la sua potenza soprannaturale. Perché l’obbedienza, la sottomissione di Gesù a suo padre e madre che l’hanno nutrito non erano ancora che un’immagine temporale della perfetta sottomissione filiale eterna di Gesù a suo Padre, suo Padre che è nei cieli».

Ed infine degli ammalati: «Una delle proposizioni più ferme della nostra fede è che le misure eterne non sono affatto le misure temporali; che un pover’uomo nel suo letto, che l’ultimo dei malati può agli occhi di Dio (e la cristianità tutta intera l’ignora fino al giudizio) meritare segretamente più che il più glorioso dei santi. Un legame così prefetto unisce l’ultimo dei membri al Capo coronato che l’ultimo dei malati, nel suo letto, è ammesso a imitare le sofferenze stesse di Gesù in croce. L’ultimo dei malati, nel suo letto, imita letteralmente, effettivamente, imita efficacemente la passione stessa di Gesù. Niente è così privato, niente è così non pubblico che una miserabile malattia che tiene un uomo inchiodato sul suo letto in una miserabile camera. L’ultimo dei malati può trasformare la sua malattia in martirio, fare della sua malattia la materia stessa di un martirio. Essa è una fabbrica di martirio a domicilio».

Che non si tratti di ideali irraggiungibili lo documenta l’episodio con cui voglio concludere. Il protagonista è Andrea, un malato terminale di Aids, che attraverso un vecchio compagno di scuola, proprio uno dei consacrati nel mondo di cui ho parlato prima, ha ritrovato la fede. Pochi giorni prima di morire ha inviato una lettera a don Giussani: «Le scrivo solamente per dirle grazie; grazie del fatto di avere dato un senso a questa mia arida vita. Sono un compagno delle superiori di Ziba con il quale ho sempre tenuto un rapporto di amicizia in quanto, pur non condividendo la sua posizione, mi ha sempre colpito la sua umanità e la sua disponibilità disinteressata. Di questa travagliata vita penso di essere arrivato al capolinea portato da quel treno che si chiama Aids e che non lascia tregua a nessuno. Adesso dire questa cosa non mi fa più paura. Ziba mi diceva sempre che l’importante nella vita è avere un interesse vero e seguirlo. Questo interesse io l’ho inseguito tante volte, ma non era mai quello vero. Ora quello vero l’ho visto, lo vedo, l’ho incontrato e incomincio a conoscerlo e a chiamarlo per nome: si chiama Cristo. Non so neanche cosa vuol dire e come posso dire queste cose, ma quando vedo il volto del mio amico o leggo Il senso religioso che mi sta accompagnando e penso a lei o alle cose che di lei mi racconta Ziba, tutto mi sembra più chiaro, tutto, anche il mio male e il mio dolore. […] Grazie don Giussani […], perché nelle lacrime posso dire che morire così ora ha un senso, non perché sia più bello - ho una grande paura di morire -, ma perché ora so che c’è qualcuno che mi vuole bene e anch’io forse mi posso salvare e posso anch’io pregare affinché i compagni di letto incontrino e vedano come io ho visto e incontrato. Così mi sento utile, pensi, solamente usando la voce mi sento utile; con l’unica cosa che ancora riesco ad usare bene io posso essere utile; io che ho buttato via la vita posso fare del bene solamente dicendo l’Angelus. […] Ziba mi ha attaccato sul letto la frase di san Tommaso: “La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente la sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione”. Penso che la mia più grande soddisfazione sia quella di averla conosciuta scrivendole questa lettera, ma la più grande ancora è che nella misericordia di Dio, se Lui vorrà, la conoscerò là dove tutto sarà nuovo, buono e vero. Nuovo, buono e vero come l’amicizia che lei ha portato nella vita di molte persone e della quale posso dire “anch’io c’ero”, anch’io in questa zozza vita ho visto e partecipato di questo avvenimento nuovo, buono e vero. Preghi per me; io continuerò a sentirmi utile per il tempo che mi rimane pregando per lei ed il movimento. La abbraccio. Andrea»[14].

 



[1] Luigi Giussani, Alla ricerca del volto umano, Rizzoli, Milano 1995, p. 163.

[2] Luigi Giussani, Avvenimento di libertà, Marietti 1820, Genova 202, pp. 33-34.

[3] At 17, 22-23.

[4] Cfr. Mario Vittorino, «In Epistola ad Ephesios», Liber secundus, in Marii Victorini Opera exegetica, cap. 4, v. 14.

[5] Thomas S. Eliot, Cori da “La Rocca”, VII.

[6] Philip. Roth, La controvita, Einaudi, Torino 2010, p. 388.

[7] Ol’ga Sedakova, Il problema dell’uomo nell’odierna cultura secolarizzata, in «La Nuova Europa», nr. 1 (gennaio-febbraio 2011), pp. 12-17.

[8] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 40.

[9] Luigi Giussani, L’io rinasce in un incontro, Rizzoli, Milano 2010, p. 182.

[10] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 42.

[11] Luigi Giussani, Alla ricerca… op. cit., p. 171.

[12] Charles Péguy, Oeuvres en prose complete, III, Gallimard, Paris, pp. 409 ss.

[13] Giovanni Paolo II, Omelia, Norcia, 23 marzo 1980.

[14] Luigi Giussani, Il tempo e il tempio. Io e l’uomo, Rizzoli, Milano 1995, pp. 57-59.