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a cura di Andrea Zambrano

vite soppresse

Milite ignoto RS

Fuori schema 27_01_2021

C’è un aspetto della sconcertante vicenda del paziente polacco RS ucciso dallo Stato inglese di cui abbiamo raccontato con Patricia Gooding Williams, unici nell’ipocrita panorama mediatico italiano, la tragica sorte.

Ed è la sua totale assenza di un nome. Una assurda e malvagia interpretazione della legge sulla privacy ci ha impedito di poter chiamare RS col suo nome, quello nel quale era stato battezzato nella fede in Cristo, quello col quale si presentò a San Giovanni Paolo II, quello col quale si è sposato e ha chiesto la cittadinanza a quello Stato che, una volta concessagliela, lo ha poi fatto morire. 

Con questa tragica sorte la privacy è diventata, da diritto allungabile come un elastico, una forma di totem totalitario, un paravento dietro la responsabilità, uno schermo crudele per togliere la dignità. Che senso ha proteggere la privacy se questa è violata prima di tutto nel bene più importante per un essere umano, che è la sua vita?

A questa domanda nessuno darà risposte. Il nome che portiamo è la nostra storia, il nostro santo protettore a volte, e comunque la prima informazione con la quale ci presentiamo al mondo. Il suo etimo latino (Nomen) e prima ancora greco (da Gignosko, conosco, rendo noto) ci illustra la sua finalità: il nome è ciò di cui abbiamo bisogno per renderci conosciuti al mondo, per esercitare quel diritto alla dignità che è preclusa agli esseri inanimati, che utilizzano del nome solo la sua funzione indicativa.

Il nome, con ovviamente il suo cognome, è personale, unico, irripetibile. Tutto questo a RS è stato negato esattamente come viene negato ai milioni di bambini abortiti nel mondo, ai quali nessuno dà il nome e che non devono essere nemmeno nominati perché anche il solo chiamarli umani smascherebbe nelle menti e nei cuori il grande inganno dell’aborto.

Perché il nome è ciò di cui Dio si è servito per chiamare le sue creature dopo aver dato loro esistenza e aver visto che erano cosa buona. Assegnare il nome è proprio di un Dio creatore e buono, toglierlo è invece è l’arma di cui il malvagio si serve per annientarlo.

Nel suo Diario clandestino in cui racconta l’esperienza del lager, Giovannino Guareschi non ha un nome: è il prigioniero 6865-333. Un codice numerico, come si fa con le matricole di un qualsiasi prodotto industriale.

Nei gulag sovietici le vittime venivano sepolte con una targhetta attaccata ai piedi sprovvista di nome: diventavano fantasmi dei ricordo e della memoria perché ciò che non si conosce non fa paura, ciò che si ignora rassicura. Ignorare il nome di un paziente costretto a morire contro la sua volontà produce lo stesso comodo sollievo: non esiste. Abbiamo notato che la morte di RS è avvenuta proprio durante quello che l’Europa civilizzata, che dice di aver fatto i conti con la sua storia, celebra la Giornata della memoria

Eppure, di RS non resterà memoria perché proprio come un prigioniero di Dachau, è stato privato della sua vita cominciando dal suo nome. Oggi tutto questo si sta ripetendo nel disinteresse globale: stanno eliminando l’amore incominciando dal togliere ai nostri occhi i volti e i nomi: la strage deve essere silenziosa per non turbarci troppo. 

RS è il nostro milite ignoto. Il soldato che non fece ritorno a casa e che nessuno seppe identificare o il cui corpo nessuno reclamò mai o addirittura il soldato che è disperso al fronte e del quale non abbiamo, oltre al nome, neppure il corpo. RS, prigioniero e milite ignoto della guerra dei nuovi diritti, della lotta terribile tra il bene e il male che lascia sul campo soldati resi innocui alla coscienza perché svuotati della loro anima vitale data da un nome da chiamare e invocare.