Militari italiani in Libia, ma Renzi si è dimenticato di farcelo sapere
Forze speciali italiane sono già in Libia, in appoggio delle milizie di Misurata impegnate a combattere lo Stato Islamico. Renzi avrebbe dovuto investire le Camere della questione. Ha deciso invece, e non da oggi, di non farlo.
SQUADRE SCELTE DI SMINATORI, GIA' IN AZIONE IN IRAQ di G. Gaiani
Alcune decine di uomini delle forze speciali italiane sono già in Libia, «con compiti di addestramento dell'esercito libico fedele al governo Serraj». La settimana scorso il governo ne ha informato il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, Copasir, l’organismo interparlamentare preposto al controllo dei servizi segreti. Ieri la notizia, che con involontaria ironia viene definita “top secret” ovvero segretissima, è stata diffusa da La Repubblica.
Gli uomini inviati in Libia sono incursori ufficialmente incaricati di addestrare le forze di al-Serraj al disinnesco delle mine, e sia a migliorare la qualità del loro «addestramento difensivo». Queste formule -- come si vede un vero e proprio capolavoro in quanto a ipocrisia -- sono intese a fondare la pretesa che non di intervento bellico si tratti bensì di aiuto umanitario. Tutto questo con l’obiettivo di aggirare l’art.78 della Costituzione ove è sancito che «Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari».
A norma della Costituzione, insomma, la decisione di entrare in una guerra compete non al governo, ma al Parlamento. Renzi avrebbe pertanto dovuto investire le Camere della questione. Ha deciso invece, e non da oggi, di non farlo; e a ciò si stava preparando per tempo. Già negli ultimi mesi dello scorso anno aveva cominciato a predisporre il quadro giuridico di operazioni del genere, poi definito con un decreto del 10 febbraio 2016 non reso pubblico «per motivi di sicurezza» (ma noto al presidente della Repubblica). In forza di tale decreto nel caso di «gravi crisi all'estero che richiedono interventi urgenti», il presidente del Consiglio può autorizzare i servizi segreti ad avvalersi di unità di corpi speciali delle Forze armate in attività sia di intelligence che di contrasto.
In tale funzione, ovvero finché sono sotto il comando dei servizi segreti, i membri di queste unità speciali hanno le stesse garanzie funzionali previste per gli agenti segreti stessi, ovvero la cosiddetta licenza di uccidere nonché l’impunità in caso di reati commessi nell'ambito della missione. All’ombra di questo opaco quadro giuridico si sono così create le condizioni non solo per aggirare quanto è stabilito in modo inequivocabile dall’art.78 della Carta costituzionale, ma anche per avere le mani libere in “guerre sporche”. Tutta la storia dimostra che fare una guerra in modo immacolato è impossibile, ma per limitarne l’inevitabile male le forze armate di un Paese come il nostro quando scendono in campo sono comunque soggette al codice penale di guerra. Nel quadro giuridico definito dal decreto di cui si diceva, invece, si mandano dei militari in uniforme, dei militari con le stellette come un tempo si sarebbe detto, a fare la guerra senza né legge né ordine.
Evitando poi di coinvolgere il Parlamento in tale decisione si manda il Paese in guerra non solo senza chiederglielo, ma anche senza farglielo sapere. Viene perciò precluso il pubblico dibattito sui pro e i contro di tale intervento, sui vantaggi e sui rischi che ne possono derivare per l’Italia, sul costo dell’operazione, e prima ancora sulla politica estera del governo nel suo insieme. In quanto all’esposizione del nostro Paese al rischio di attacchi terroristici non sarà di certo questa scelta ambigua a variarne l’intensità. Anche se non è nota al grande pubblico in Italia, la presenza dei nostri reparti speciali a fianco delle forze del governo di al-Serraj è ovviamente evidentissima a chi se li trova davanti in Libia. Se dunque tale presenza dovesse motivare qualcuno a ordire attacchi terroristici in Italia, il fatto che la nostra opinione pubblica ne sia ben poco informata giocherebbe non contro ma anzi a favore di eventuali decisioni del genere.
Per il nostro Paese la Libia è un fornitore primario di materie prime energetiche. Come poi anche di recente ricordavamo, l’Eni sta lavorando a un’operazione di gigantesca importanza: la creazione di una rete integrata di gasdotti trans-mediterranei estesa tra Cipro, l’Egitto e l’Italia. Perno di questa rete sarà il gasdotto che collega la Sicilia alla stessa Libia. É un’operazione che farebbe del nostro Paese, in quanto porta d’ingresso in Europa delle grandi forniture di gas, il primo concorrente della Germania, capolinea dei gasdotti russi. Se ci considera da un lato l’attuale politica del governo verso Tripoli e dall’altro il peso di tale operazione viene da domandarsi se dentro il governo Renzi non sia in atto un grande scontro anche a questo riguardo.
Il “padre” dell’operazione di cui si diceva è Claudio Descalzi, amministratore delegato dell’Eni per esplicita indicazione di Matteo Renzi. Viene perciò da chiedersi come mai il governo faccia tutto il possibile non per risolvere bensì per complicare la situazione in Libia. Anche in questo caso si deve purtroppo concludere che mentre l’attenzione del grande pubblico viene calamitata dal culmine della stagione dei campionati mondiali di auto e moto, e dallo spettacolo clamoroso, ma irrilevante delle Olimpiadi, poco o nulla cambia in meglio e molto invece in peggio nel campo delle cose che contano.