Meeting, le ragioni di una svolta
Alle domande poste ieri da Stefano Fontana sul Meeting di Rimini, risponde oggi Robi Ronza che - con 35 anni di comitato organizzatore e 16 da portavoce alle spalle - ne ripercorre origine e sviluppo, fino all'attuale "istituzionalizzazione" che crea disagio in molti. Malgrado ciò non viene meno lo spazio di un cammino comune.
Vivere e quindi testimoniare, seppur nella forma particolare della festa, la capacità della fede e dell’esperienza cristiana di confrontarsi e di incontrare positivamente la realtà contemporanea: sono questi i due motivi di fondo che furono all’origine nel 1980 dell’invenzione del Meeting di Rimini.
Dico invenzione poi perché proprio di questo si trattò. Erano tempi nei quali una larga parte del mondo cattolico o subiva passivamente l’egemonia della cultura marxista, “religione ufficiale” di quasi tutta l’intellighenzija italiana dell’epoca, oppure si sottraeva al confronto con essa. La gente invece di Comunione e Liberazione, che intendeva stare nel presente a viso aperto e senza alcun complesso d’inferiorità, veniva costantemente stretta d’assedio nelle scuole, nelle università e nei luoghi di lavoro da un ordine costituito sociale e mediatico che la accusava di integralismo e di bassi interessi costringendola quasi permanentemente a una mobilitazione difensiva.
L’inattesa vitalità dell’esperienza di Chiesa fondata e animata da don Luigi Giussani aveva infatti suscitato un vero e proprio furore nei farisei di quegli anni. Un livido furore che mi è tornato alla memoria alla notizia delle furiose e sconclusionate invettive del deputato del Movimento Cinque Stelle Mattia Fantinati al Meeting di quest’anno. Evidentemente non solo i poveri ma anche i farisei saranno sempre con noi.
Si valutò allora che fosse molto importante costruire un’occasione in cui non doversi sempre difendere, non dover sempre replicare: un momento di festa fraterna e gentile in cui vivere e quindi testimoniare positivamente il bello e buono per tutti di quanto si aveva incontrato. Nacque allora il Meeting: dall’innesto delle urgenze e dei contenuti culturali, maturati soprattutto a Milano nell’ambiente della casa editrice Jaca Book, sull’idea nata a Rimini di una festa estiva del modo di vivere cristiano. Il suo straordinario immediato successo, una felice sorpresa per i suoi stessi promotori, dimostrò quanto l’intuizione fosse giusta e quanto diffuso fosse il desiderio cui il Meeting dava tempestiva risposta. Sin dall’origine infatti il pubblico degli interessati andò anche ben oltre la gente di Cl e la gente di fede in genere.
Rapidamente affermatosi come il più frequentato festival estivo di cultura, arte e spettacoli prima d’Italia e poi anche del mondo (non è questa un’esagerazione, ma semplicemente un dato statistico) il Meeting di Rimini assunse perciò pure molto presto una rilevanza politica sia obiettiva che soggettiva. Da un lato ai notabili della politica italiana piaceva e interessava affacciarsi alla sua ribalta, e dall’altro per i responsabili del Meeting e dell’ambiente di cui è espressione diventò un’occasione importante di contatto diretto con il mondo politico ai suoi massimi livelli.
Senza entrare in ulteriori dettagli, che qui ci porterebbero fuori tema, mi interessa sottolineare che da allora ad oggi il Meeting di Rimini è in sostanza queste tre cose: 1) un’affascinante esperienza cristiana di vita e di lavoro sia per chi lo fa che per chi lo visita; 2) una testimonianza appassionatamente e lietamente vissuta della capacità delle culture di matrice cristiana di incontrare positivamente il mondo contemporaneo e di dialogare con chiunque abbia passione e rispetto per l’uomo; 3) un’occasione di contatti ravvicinati al massimo livello tra l’ambiente di cui il Meeting è espressione e l’ordine costruito del potere politico e del potere economico del nostro Paese.
I primi due elementi sono originari mentre il terzo si è aggiunto successivamente. Niente di strano: è naturale che un evento di tali dimensioni susciti l’interesse di chi è ai vertici della politica e dell’economia. Poi si tratta di vedere come gestire tale situazione, ma in sé la situazione non soltanto risulta ovvia e inevitabile, ma è anche pienamente legittima. Tuttavia, come analogamente a Comunione e Liberazione in quanto tale, anche al Meeting di Rimini questo terzo elemento pone un problema: mentre non incide sulla qualità del primo dei tre elementi di cui si diceva, entra invece in qualche concorrenza con la qualità del secondo.
È poi questo l’eterno problema del rapporto con il potere: in quale misura è meglio starne fuori e premere su di esso dall’esterno, dal basso, dalla base sociale? In quale misura invece conviene cercare di entrarvi per dare dal suo interno un nostro contributo al bene comune? E, nel caso in cui ci si voglia muovere sia fuori che dentro di esso, qual è il punto oltre il quale il compromesso da alto diventa basso?
Da quasi subito - ovvero già da quando con l’edizione del 1982 l’evento divenne di rilevanza nazionale – è questo uno dei problemi cruciali che si pongono a chi governa il Meeting. È dunque in tale orizzonte che vanno cercate le risposte alle domande che la sua edizione di quest’anno, la trentaseiesima, ha suscitato in Stefano Fontana (clicca qui) e in tanti altri. Mi sembra che tutto quanto egli osserva non possa venire ignorato. Ho solo una riserva su quanto scrive di Chiara Giaccardi, definita propugnatrice del “gender cattolico”. Mi sembra troppo severo.
Non entro comunque nel merito specifico delle critiche di Stefano Fontana. Sono in ogni caso troppo coinvolto col Meeting per farlo con libertà. Lascio che parlino per me i miei trentacinque anni nel suo comitato organizzatore (1980-2014) e i sedici anni in cui ne fui portavoce (1989-2005).
Nel quadro dell’orizzonte più sopra delineato mi limito a fare delle osservazioni d’insieme appoggiandomi soltanto su fatti aperti alla verifica di chiunque. Osservo allora che con l’edizione di quest’anno il Meeting ha assunto un carattere marcatamente istituzionale. Il suo carattere di “opera” a responsabilità di chi la realizza risulta essersi molto attenuata. Tale istituzionalizzazione è stata esplicitamente ribadita dal fatto che quest’ anno, salvo pochissime e secondarie eccezioni, gli incontri venivano sempre condotti da uno degli attuali cinque maggiori leader laici di Cl, ogni volta indicato nel programma con il suo incarico nel Movimento. Tanto più tenuto conto dei contatti che ovviamente si sviluppano tra i relatori invitati al Meeting e i conduttori dei loro incontri, ciò equivale a un pubblico e ufficiale accreditamento. E di pari passo equivale al venir meno di qualsiasi eventuale rappresentatività di chiunque altro, essendo partecipe della vita del Movimento, abbia ruoli di rilievo nella vita pubblica e in particolare nella vita politica. Nei convenevoli, che precedevano l’inizio degli incontri, un’amichevole consuetudine con gli illustri invitati veniva non appena possibile fatta sapere al pubblico: si dava del tu e chiamava per nome Matteo, ossia il capo del governo, venendo affettuosamente ricambiati con la stessa confidenza; e si faceva lo stesso con ministri, semi-ministri, capi di grandi aziende. In altri tempi lo si sarebbe evitato.
Insomma, con la sua edizione 2015 il Meeting, e tutta la realtà ufficiale del mondo di cui esso è espressione, si sono presentati all’opinione pubblica come parte notabile dell’attuale establishment del nostro Paese; con tutte le cautele e i silenzi che ne conseguono. È una svolta a dir poco sorprendente rispetto alle origini e a larga parte del suo passato. Siccome però è evidente che l’ispirazione e tutti i fondamenti di tale esperienza continuano, ciò significa che questa svolta è ispirata alla speranza di procedere con rinnovata efficacia sul cammino di sempre. Auguriamoci che tale speranza trovi conferma nei fatti. E che se ciò non avvenisse si abbia poi la forza di cambiare strada.
Resta frattanto il disagio di molti, me compreso. Per grazia di Dio un movimento come CL non è un esercito che marcia inquadrato: sono piuttosto tante carovane che fanno sosta, s’incontrano e si rifocillano alle stesse oasi. Resta dunque il disagio, ma resta anche lo spazio del cammino da un’oasi all’altra. Ad ogni modo in un’esperienza di vita cristiana niente vale di più della comunione. Se dunque ci sono tempi in cui la comunione costa sacrifici facciamoli. Vale comunque la pena di farli.