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DIBATTITO

Medio Oriente, manca chi è capace di perdono

Il dolore dei palestinesi e la paura degli israeliani sono facce della stessa medaglia. Si potrebbe passare tutto il tempo a scrivere elenchi di sofferenze e atrocità, da una parte e dall'altra, ma soltanto la capacità di amare può far superare gli steccati. Come ci insegna la testimonianza di Laila...

Esteri 08_06_2013
Gerusalemme

Caro Direttore,

leggendo il reportage di Stefano Magni su Gaza apparso il 6 giugno, mi è tornata alla mente la recente operazione “Colonna di nuvole” del novembre scorso. Una settimana di tensione che il pezzo cita  più volte.  Io mi sono trovato in mezzo, e seguivo dalla Città Santa (colpita per ben due volte durante quegli interminabili sette giorni) l’evolversi degli eventi. Nei racconti di Magni ho ritrovato tutta la paura degli abitanti di Ber Sheeva, Ashdod, Askelon, anche allora soffocati da un timore comprensibile che toglie il fiato. Ma nel leggere delle scuole fortezza nei Kibbuz ho pensato anche a tutte quelle distrutte nella Striscia e non ancora ricostruite. Per non parlare di quel signore in pensione di Sdot Negev, che non ha i soldi per costruirsi un bunker.

A Gaza quanti saranno i privilegiati che possono permettersi di avere questi problemi? Insomma, nella paura israeliana ho ritrovato anche tutta la sofferenza palestinese. Era il terrore di chi si vedeva passare sopra la testa i “razzi rudimentali” di Hamas e i raid israeliani a precisione chirurgica, senza distinguere quali fossero quelli “buoni” e quali invece quelli “cattivi”. Ho parlato con George, un buon padre di famiglia. Lui, quando sentiva i missili, diceva alla figlia che stavano bussando alla porta, per paura che potesse avere dei traumi futuri. Un anziano è persino morto di crepacuore, dopo l’ennesimo attacco. E Claire, una bambina di 9 anni che quando sentiva il rombo di un missile si faceva la pipì addosso e cominciava a tremare (ha queste reazioni dal 2009, un segno permanente lasciatogli dall’operazione “Piombo fuso”). O ancora Sruir, che al ritorno da una preghiera in parrocchia non ha trovato più la casa perché un missile israeliano l’aveva rasa al suolo proprio qualche istante prima. Si potrebbero passare le giornate a riempire pagine e pagine di elenchi tristi e ripetitivi come quello che ho fatto io adesso. Elenchi che - sono certo - Magni potrebbe riscrivere con altre atrocità viste dall’altra parte. Tutte cose vere e – per carità - meritevoli della stessa attenzione. Spesso però c’è chi le osserva solo da Gaza e chi solo da Ber Sheeva. Con l’ottima complicità dei media che negli anni hanno formato delle proprie squadre di ultras.  Scrivo queste cose senza la presunzione di insegnare niente a nessuno, né con la volontà di appuntare nulla al puntuale reportage, ma con il desiderio di arricchire un dibattito che non stancherà mai di infiammare cuori e menti. Che ci porta spesso a nasconderci dietro le pretestuose ragioni degli uni o degli altri. Ma il dolore degli abitanti di Gaza e la paura degli israeliani non sono forse le facce della stessa medaglia?

Due anni fa ho ricevuto una lezione che non dimenticherò mai, da una donna israeliana, Laila, che aveva perso due figlie durante la seconda intifada. Durante un incontro con alcuni giornalisti, le chiesero quanto odiasse quegli assassini. Molto semplicemente, rispose: “Se mi mettessi pure a odiarli, penso che non potrei più vivere. Amare è l’unico modo che ho per stare dentro la realtà”. Ecco, credo che la ragione – se mai esiste – ce l’ha quella donna.  In Terra Santa non manca chi fa elenchi, manca chi è capace di perdonare. E di amare, come Laila.