«Medici di base impotenti. Ma ho continuato a curare»
«La medicina territoriale è stata esclusa dai giochi e si è voluto creare una distanza tra noi e i pazienti, ma io ho continuato a curare e non ho avuto né un decesso, né un ricovero in terapia intensiva». La testimonianza di un medico di base di Bologna che rivela come il ministero «abbia disincentivato i pazienti dal ricorrere a noi medici di famiglia». Il mistero delle sovradiagnosi da Covid e dell'attendibilità dei tamponi.
E' sempre più chiaro che uno dei problemi maggiori nella gestione di questa emergenza sanitaria, riguarda la “messa in quarantena” dei medici di base. Viene loro chiesto di fare tamponi, ma vengono ostacolati nel fare il lavoro proprio di identificazione di una malattia in base alla sintomatologia dei pazienti, con conseguente cura. Di un malato, importa solo sapere se sia positivo e negativo al tampone; e nel caso di positività, si mette in atto tutto il carrozzone di identificazione dei contatti, isolamenti, etc. «La medicina territoriale è stata esclusa dai giochi e si è voluto creare una distanza tra noi e i pazienti», dice alla Bussola la dottoressa Maria Grazia Dondini, medico di Medicina generale di Monterenzio, in provincia di Bologna.
Dottoressa, che cos’è successo verso la fine dell’inverno di quest’anno?
Noi medici di medicina generale, tutti gli anni, generalmente da ottobre a marzo, vediamo polmoniti interstiziali, polmoniti atipiche. E tutti gli anni le trattiamo con antibiotico. Si tratta di pazienti che vengono in ambulatorio con sintomi simil-influenzali - tosse, febbre, poi compare “senso di affanno” - che non si esauriscono nell’arco di qualche giorno. La valutazione del paziente e l’evoluzione clinica depongono per forme batteriche; si dà loro un antibiotico macrolide (e nei casi più complicati del cortisone) e, nell’arco di qualche giorno, si riprendono egregiamente con completa risoluzione dei sintomi.
Quest’anno non è andata così...
Il 22 febbraio di quest’anno è stata comunicata la circolazione di un nuovo coronavirus. Il Ministero della Salute ha mandato un’ordinanza a tutti noi medici del territorio, dicendoci sostanzialmente che eravamo di fronte a un nuovo virus, sconosciuto, per il quale non esisteva alcuna terapia. La cosa paradossale è che fino a quel giorno avevamo gestito i medesimi pazienti con successo, senza affollare ospedali e terapie intensive; ma da quel momento si è deciso che tutto quello che avevamo fatto fino ad allora non poteva più funzionare. Non era più possibile un approccio clinico/terapeutico. Noi, medici di Medicina generale, dovevamo da allora delegare al dipartimento di Sanità Pubblica, che non fa clinica, ma una sorveglianza di tipo epidemiologico; potevamo vedere i pazienti solamente se in possesso di mascherina FFP2, che io ho potuto ritirare all’ASL solo il 30 di marzo. Ma c’è una cosa più grave.
Quale?
Nella circolare ministeriale, il Ministro della Sanità ci dava le seguenti indicazioni su come approcciarci ai malati: isolamento e riduzione dei contatti, uso dei vari DPI, disincentivazione delle iniziative di ricorso autonomo ai servizi sanitari, al pronto soccorso, al medico di medicina generale. Dunque, le persone che stavano male erano isolate; e, cosa ancora più grave, il numero di pubblica utilità previsto non rispondeva. Tutti i pazienti lamentavano che non rispondeva nessuno; io stessa ho provato a chiamare il 1500 senza successo. Un ministro della salute che si accinge ad affrontare una emergenza sanitaria prevede che i numeri di pubblica utilità non rispondano?
Un disastro.
In sintesi: le polmoniti atipiche non sono state più trattate con antibiotico, i pazienti lasciati soli, abbandonati a se stessi a domicilio. Ovviamente dopo 7-10 giorni, con la cascata di citochine e l’amplificazione del processo infiammatorio, arrivavano in ospedale in fin di vita. Poi, la ventilazione meccanica ha fatto il resto.
E lei, come si è comportata?
Io ho continuato a fare quello che ho sempre fatto, rischiando anche denunce per epidemia colposa, e non ho avuto né un decesso, né un ricovero in terapia intensiva. Ho parlato con una collega di Bergamo e un altro collega di Bologna, che hanno continuato a lavorare nel medesimo modo, e nessuno di noi ha avuto decessi e ricoveri in terapia intensiva. Anche l’OMS ha dato indicazioni problematiche: nelle prime fasi della malattia ha previsto solo l’isolamento domiciliare, nella seconda e terza fase, quindi condizioni di gravità moderata e severa, l’unico approccio terapeutico previsto doveva essere l’ossigenoterapia e la ventilazione meccanica. A mio modo di vedere c’è una responsabilità anche dell’OMS, perché non ha dato facoltà al medico di valutare clinicamente il paziente.
Con questo approccio però, una persona non muore solo di covid. Se si lascia in casa un malato senza cure...
Assolutamente sì. Poi c’è un altro problema. Si arrivava in ospedale, si faceva il tampone: tampone positivo, quindi veniva formulata la diagnosi di COVID-19. E si veniva trattati come tali. Punto. Qui a Bologna c’è stato anche altro: a pazienti con tampone negativo, venivano fatte una o più TAC toraciche e sulla base delle immagini di “ground glass” veniva formulata la diagnosi di COVID-19. Mi sono confrontata con una radiologa e mi ha confermato come queste immagini radiologiche non siano patognomoniche per COVID-19, poiché si evidenziano in molteplici altre patologie. E quindi si è finito per mascherare altri quadri clinici anche più gravi. Pertanto ritengo che innumerevoli condizioni cliniche non siano state trattate come avrebbero dovuto.
Lei ha sollevato dei dubbi anche sulla veridicità dell’esito dei temponi.
Il primo studio cinese del 24 gennaio afferma che, riguardo all’isolamento del SARS-COV-2, non sono stati rispettati i postulati di Henle-Koch, indispensabili per isolare effettivamente un virus o un batterio. A riguardo, sono andata in un laboratorio di ricerca, per chiedere informazioni, anche perché girava un documento da cui sembrava che si utilizzasse un primer per avviare questa amplificazione genica che avrebbe una sequenza complementare al cromosoma 8 umano (il che significherebbe 100% di falsi positivi). Mi è stato risposto che i postulati di Koch sono vecchi di oltre un secolo. Allora ho chiesto: scusate, voi lavorate con una sequenza genica; ma per allestire un vaccino avrete bisogno del virus intero. Mi è stato ribattuto che in questo caso, i postulati di Koch sarebbero necessari, perché per un vaccino avremmo bisogno dell’involucro virale. Mi sembra piuttosto contraddittorio. Bisognerebbe indagare bene su come vengano allestiti questi tamponi e ricordiamoci che lo stesso ideatore del test di amplificazione genica, il Dott. Mullis, ha sempre sostenuto che non dovesse essere utilizzato a fini diagnostici!
L’OMS mette a disposizione la possibilità di consultare i dati relativi all’influenza. Dall’aprile di quest’anno, praticamente pare non esista più l’influenza.
Certo. Ma non solo. Noi riceviamo annualmente il report dell’influenza dell’autunno-inverno precedente. Ce lo consegnano nell’autunno successivo, in occasione dell’apertura della campagna vaccinale antinfluenzale. Quest’anno, stranamente, questo report è arrivato verso la fine di febbraio: questo significa che si era già deciso che tutte le forme influenzali/simil-influenzali dovevano essere battezzate come COVID-19. L’influenza è sparita, insieme a tanto altro. Io sono convinta che ci troviamo di fronte a numerose sovradiagnosi di COVID-19.
Una parola sull’affollamento degli ospedali.
Sui dati dei ricoveri e delle terapie intensive: non ci può essere chiarezza fino a quando non si specificherà chi sono queste persone e di cosa effettivamente soffrono. Dai dati comunicati non si capisce: non si fa questa necessaria operazione di definizione dei ricoveri. Si danno semplicemente dei numeri, come i numeri dei tamponi positivi in pazienti per la maggior parte asintomatici. E questo allontana dalla reale misura del problema, sempre che di COVID-19 si debba parlare. E’ evidente che si voglia ricercare solo quello.