"Mea maxima culpa", la menzogna sbarca al cinema
Con grande rumore arriva in Italia il film americano del 2012 «Mea Maxima Culpa – Silenzio nella casa di Dio» del regista statunitense Alex Gibney. Espressamente contro la Chiesa contiene un numero impressionante di bugie. Si resta sconcertati quando si vede la protervia con cui menzogne smentite decine di volte sono riproposte tranquillamente, ignorando i fatti.
Con grande fanfara arriva in Italia il film americano del 2012 «Mea Maxima Culpa – Silenzio nella casa di Dio» del regista statunitense Alex Gibney.
Premetto di avere visto la versione originale in lingua inglese: non escludo che – com’è accaduto altre volte – il doppiaggio italiano aggiunga altre imprecisioni. Ma anche l’originale di questa nuova macchina da guerra contro la Chiesa contiene un numero impressionante di bugie. Si resta davvero sconcertati quando si vede la protervia con cui menzogne smentite decine di volte sono riproposte tranquillamente, ignorando documenti e fatti.
Come altre produzioni in materia di preti pedofili – dal film «Deliver Us from Evil» (2006) della regista Amy Berg al documentario «Sex Crimes and the Vatican» (2006) dell’attivista omosessuale ed ex-parlamentare irlandese Colm O’Gorman, a suo tempo proposto da Santoro in «Annozero» – il film propone uno schema in tre passaggi.
Nel primo si mostrano, con immagini e testimonianze sconvolgenti che non possono che provocare l’ira e il disgusto dello spettatore, le nefandezze dei sacerdoti pedofili. Nel secondo si «dirottano» il disgusto e l’ira dal prete pedofilo di turno ai vescovi che l’avrebbero protetto. Nel terzo passaggio l’ira, così canalizzata, è indirizzata verso il destinatario ultimo: la Santa Sede e i Papi beato Giovanni Paolo II (1920-2005) e Benedetto XVI.
I tre passaggi non sono evidentemente sullo stesso piano. Il primo in «Mea Maxima Culpa» ha sequenze tecnicamente ben fatte, e ci mette di fronte anzitutto a un caso vero e tragico, che fa da filo conduttore a tutto il film. Si tratta della vicenda di don Lawrence Murphy (1925-1998), accusato di abusi particolarmente disgustosi, durati per vent’anni, in un collegio per minorenni sordi, la St. John School a Saint Francis, nel Wisconsin.
Non dobbiamo avere paura di riconoscerlo, ed è stato un insegnamento sistematico di Benedetto XVI: i preti pedofili esistono. Se anche ce ne fosse stato uno solo nella Chiesa, sarebbe stato uno di troppo. Ma sono stati molti di più: non migliaia, come vorrebbe la propaganda anti-cattolica, ma centinaia. I loro crimini sono una gravissima vergogna, uno scandalo, un’offesa inaudita. Molte volte a nome della Chiesa l’attuale Pontefice emerito ha chiesto perdono alle vittime. Ha anche messo in opera misure severissime, che hanno fatto sì che i casi siano molto diminuiti. Ma accettiamo anche da avversari della Chiesa il servizio che ci rendono, impedendoci di dimenticare che casi come quelli di don Murphy si sono purtroppo davvero verificati.
Sul secondo passaggio il film comincia a svelare la sua agenda. Ci dice che la sua diocesi, quella di Milwaukee, ha coperto per anni don Murphy. Chi lo afferma? Qui sfilano i soliti sospetti, la compagnia di giro dei professionisti dell’anti-pedofilia, molti dei quali sono già noti ai nostri lettori.
Si va da esponenti dello SNAP, l’associazione di sostegno alle vittime degli abusi di cui «La Nuova Bussola Quotidiana» ha svelato il 9 marzo qualche segreto non proprio encomiabile, all’avvocato miliardario Jeff Anderson, che si è arricchito dedicandosi praticamente a tempo pieno alle cause dove chiede risarcimenti strabilianti – che finiscono in buona parte nelle sue tasche – alla Chiesa.
Il film riporta compiaciuto che oltre cinquecento cause hanno portato nelle casse di Anderson e di pochi altri come lui due miliardi di dollari. Ritroviamo il sacerdote domenicano ultra-progressista Tom Doyle, attivissimo nel testimoniare a pagamento per Anderson e che il film presenta come un paladino dei veri interessi della Chiesa mentre ha pubblicamente dichiarato nel 2012 che ormai «non ha più niente a che fare con la Chiesa» e che le sue credenze «sono più o meno quanto di più lontano dal Vaticano potete immaginare».
Non mancano la giornalista del «New York Times» Laurie Goodstein, che ha trasformato il quotidiano americano in un megafono di Anderson e dello SNAP, e l’ex-benedettino, ora sposato, Richard Sipe, che spiega sapientemente come gli insegnamenti della Chiesa su eucarestia e confessione siano «eresie».
Si aggiungono, per un tocco internazionale, il già citato Colm O’Gorman, l’ex-parlamentare radicale italiano Maurizio Turco – noto per avere chiesto l’incriminazione di Papa Benedetto XVI per crimini contro l’umanità – e il vaticanista de «Il Fatto Quotidiano», Marco Politi, che porta anche una nota di colore al film attaccando la Chiesa con una curiosissima pronuncia inglese all’amatriciana. In questo inglese improbabile, ci spiega che il problema dei preti pedofili è antichissimo e che già «un concilio spagnolo del IV secolo» lo aveva rilevato. Politi allude ai canoni 12 e 71 del Concilio di Elvira, che però trattano di rapporti sessuali con minori – purtroppo comuni nell’antichità romana – senza fare riferimento ai preti, di cui è invece sanzionata l’immoralità sessuale, senza allusioni alla pedofilia. Utilizzare il Concilio di Elvira per sostenere che la Chiesa ha a che fare con i preti pedofili e li copre «da 1.700 anni» è semplicemente ridicolo.
Per sfortuna dei professionisti dell’anti-pedofilia, il caso Murphy è stato studiato a fondo e da anni, e i documenti raccontano una storia diversa dalla loro. Le denunzie precedenti al 1973 erano così vaghe da non giustificare nessuna azione. Nel 1973 alcune vittime iniziano a rompere davvero il silenzio. Nel 1974 incontrano l’allora arcivescovo di Milwaukee mons. William Edward Cousins (1902-1988).
Il film ci racconta che Cousins, dopo questo incontro, «non fece nulla». È una bugia. L’incontro con le vittime si svolse il 4 maggio 1974. Già il successivo 18 maggio il giornale diocesano riportava che don Murphy era stato sollevato da ogni incarico pastorale e d’insegnamento agli studenti della scuola St. John’s. A settembre, lasciò la scuola – certo, come mostra il film con immagini dell’epoca, calorosamente ringraziato da una parte degli studenti che nulla sapevano degli abusi. Da allora, per venticinque anni visse a casa sua a Boulder Junction, nel Wisconsin, a oltre trecento chilometri dalla St. John’s, e non ricevette fino alla morte alcun ulteriore incarico pastorale.
Il film afferma che fu «assegnato» alla parrocchia di Boulder Junction. Altra bugia: è vero che nei primi anni alcuni parroci della zona lo chiamarono a celebrare Messa, ma lo fecero ignorando che era stato autorizzato dalla sua arcidiocesi, Milwaukee, a celebrare solo privatamente.
Il film ammette che la polizia, cui una vittima si era rivolta, rimase inattiva, e che la magistratura locale – dopo un’inchiesta sommaria e una visita alla scuola – archiviò il caso. Afferma che lo fece perché era scattata la prescrizione – il che è molto dubbio – e perché «i magistrati erano cattolici», un’accusa curiosa dal momento che magistrati cattolici hanno incriminato preti pedofili in tutti gli Stati Uniti.
Soprattutto, il film si dimentica di dire che la stessa arcidiocesi si rivolse alla magistratura: e la dimenticanza deriva dal fatto che – fra tanti testimoni – il regista Gibney si è «dimenticato» di consultare padre Thomas Brundage, pure citato nel film, che seguì tutto il caso come responsabile del tribunale ecclesiastico di Milwaukee e la cui testimonianza cruciale è stata completamente ignorata.
Certamente la Chiesa nel 1974 era meno consapevole di oggi della gravità dello scandalo dei preti pedofili. Tuttavia, non è vero che l’arcivescovo Cousins «non fece nulla»: al contrario, si mosse rapidamente per mettere don Murphy in condizione di non nuocere. Quanto alle responsabilità penali del sacerdote, non fu la Chiesa a proteggerlo dalla magistratura ma fu la magistratura – sbagliando, ma non per colpa dell’arcivescovo – ad archiviare le denunce senza approfondirle.
Veniamo al terzo passaggio. Il film racconta come negli anni dal 1996 al 1998 don Murphy sia stato protetto nientemeno che dal cardinale Ratzinger e dall’allora cardinale Bertone che, in qualità rispettivamente di prefetto e segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, non diedero seguito a denunce arrivate a Roma da Milwaukee.
Intervista l’impresentabile ex-arcivescovo di Milwaukee Rembert George Weakland O.S.B., caduto in disgrazia dopo che è emerso il suo uso di 450.000 dollari tratti dalle casse dell’arcidiocesi per pagare un amante omosessuale che lo stava ricattando.
Weakland non solo è tradito dalla sua memoria quando afferma che i tempi di prescrizione del crimine di abusi sono più brevi nel diritto canonico rispetto al diritto civile – è il contrario – ma afferma, «pro domo sua», che portò il caso a Roma e che il cardinale Ratzinger e l’allora mons. Bertone si mossero con grande lentezza permettendo a Murphy di morire nel 1998 senza essere stato adeguatamente punito. Mons. Weakland e il film ripetono menzogne che sono state già smascherate nel 2010, quando la bufala fu lanciata dalla Goodstein sul «New York Times» per attaccare Benedetto XVI, da un’esemplare inchiesta dell’attuale direttore de «La Nuova Bussola Quotidiana» Riccardo Cascioli, il quale ricostruì il comportamento della Congregazione per la Dottrina della Fede nel caso Murphy nei più minuti particolari, tutti sostenuti da documenti.
Dall’inchiesta di Cascioli emergeva che il caso di don Murphy era di competenza di Milwaukee, non di Roma, ma che Roma – in persona dell’allora monsignor Bertone – non si disinteressò affatto della vicenda né incitò a insabbiarla, fornendo precisazioni quanto alla procedura che permettesse di sanzionare in modo conforme al diritto canonico un sacerdote, che era peraltro moribondo, in relazione a fatti che risalivano a oltre vent’anni prima.
Ma è evidente che i dettagli precisi non interessano ai professionisti dell’anti-pedofilia. Lo scopo è attaccare Benedetto XVI, già prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede di cui si spiega che «era un tempo chiamata Inquisizione», mostrando al riguardo la solita litografia illuminista settecentesca dove si vede una donna, nuda e con gli obbligatori seni ben esposti, torturata dall’Inquisizione con le sue macchine diaboliche. Certo, il film cerca di presentarsi come obiettivo riconoscendo gli sforzi di Benedetto XVI per arginare la piaga dei preti pedofili. Ma si afferma – contro l’evidenza dei fatti – che non hanno avuto alcun successo.
Se il caso Murphy offre l’impalcatura su cui si costruisce tutto il film, si menzionano anche altri episodi. Colpisce che non si tratti mai di casi recenti, a riprova del fatto che davvero le misure di Benedetto XVI hanno ridotto in modo molto significativo il fenomeno, precisamente quello che il film cerca di negare.
Il primo caso evocato è quello dell’Irlanda, dove in relazione agli abusi di don Tony Walsh si evoca come «il documento misterioso» la lettera del 1997 in cui l’allora nunzio apostolico in Irlanda mons. Luciano Storero (1926-2000) comunicava ai vescovi irlandesi le «serie riserve» della Congregazione del Clero su un documento preparato da una commissione di esperti nel 1995 in cui tra l’altro si stabiliva l’obbligo per i vescovi di denunciare immediatamente alle autorità civili ogni notizia o voce di abusi di cui fossero venuti a conoscenza.
La pubblicazione della lettera provocò nel 2011 una crisi diplomatica fra Irlanda e Santa Sede, di cui ci occupammo su «La Bussola Quotidiana», dando conto della dettagliata risposta della Segreteria di Stato.
Nel 1997 l’obbligo di denuncia immediata di possibili abusi – non solo per i vescovi ma anche per i medici, i dirigenti scolastici e altri – non esisteva nel diritto dell’Irlanda, che sarebbe cambiato sul punto solo nel 1999. Se i vescovi, prima di qualunque indagine e sulla base magari di una semplice accusa malevola o isolata, avessero denunciato immediatamente i propri preti alla polizia non solo avrebbero agito in modo moralmente discutibile ma avrebbero violato la legge dello Stato irlandese dell’epoca, esponendosi ad azioni penali per calunnia e civili per il risarcimento del danno agli accusati che poi fossero risultati innocenti. Nulla di tutto questo emerge nel film: la lettera Storero è presentata come la «pistola fumante», la prova della volontà della Chiesa di proteggere i pedofili a tutti i costi.
Viene poi il caso di padre Marcial Maciel (1920-2008), il fondatore dei Legionari di Cristo di cui si ricostruiscono la doppia vita, i figli illegittimi e gli abusi omosessuali ed eterosessuali. Il riferimento nel film offre l’occasione di una precisazione.
Senz’altro qualche difensore di «Mea Maxima Culpa», che dà voce ancora una volta al giornalista ostilissimo alla Santa Sede Jason Berry, mi ricorderà che a suo tempo scrissi una recensione molto critica del libro di Berry, in cui mostravo di credere alle proteste d’innocenza di Maciel, convinzione che confermai in una successiva breve nota all’inizio dell’indagine vaticana, auspicando che tutto potesse essere chiarito.
Non ho nessuna difficoltà a confessare di essermi sbagliato. Come molti altri, vedevo i buoni frutti della congregazione dei Legionari di Cristo e avevo difficoltà a convincermi che potessero venire da una radice perversa. Sapevo anche che il beato Giovanni Paolo II – come il film non manca di ricordare – credeva all’innocenza di padre Maciel. Avevo torto io, e aveva ragione il cardinale Ratzinger che invece fin dall’inizio riteneva colpevole il fondatore dei Legionari di Cristo.
Mi è già capitato di fare ammenda – in pubblico, con una lettera letta al congresso dell’International Cultic Studies Association tenuto a Montreal nel 2012 – per una posizione sbagliata che può avere arrecato dolore ad autentiche vittime dei crimini di padre Maciel.
L’occasione è però favorevole per precisare che il fatto che Maciel fosse colpevole non rende vere le affermazioni del libro di Berry che attaccano la Chiesa in genere, per esempio con autentiche castronerie su come procedono i tribunali ecclesiastici nei casi di annullamento di matrimoni. Maciel è colpevole, ma le castronerie restano tali. E ha torto anche Politi quando afferma nel film che quello di Maciel è «un caso di scuola» in materia di preti pedofili. No, non lo è. È un «mistero», come ebbe a dire Benedetto XVI. Non ci sono altri casi di fondatori di ordini religiosi, con frutti splendidi, colpevoli di comportamenti non solo immorali, ma criminali.
Politi sostiene anche che in Italia ci sono «migliaia di casi di abusi sessuali nascosti dalla Chiesa». Ma deve avere qualche problema con i numeri, perché i casi segnalati ai tribunali italiani sono al massimo un’ottantina. Certo, ci sono episodi reali come quello dell’Istituto Provolo per sordi a Verona. Ma – affidandosi ad anti-clericali fanatici come Maurizio Turco – il film ci mostra sequenze a effetto senza dire che la Chiesa italiana si è mossa affidando un’esemplare inchiesta indipendente a un magistrato, il dottor Mario Sannite, che ha portato a sanzioni della Santa Sede contro un sacerdote e a ulteriori indagini su altri tre. L’indagine ha però anche giudicato fantastiche e infondate le accuse di Gianni Bisoli, che afferma di essere stato fra gli abusati, contro ben ventinove religiosi e contro l’allora vescovo di Verona, il servo di Dio mons. Giuseppe Carraro (1899-1980), di cui dopo il rapporto Sannite è ripreso il processo di beatificazione.
Ripetiamolo ancora una volta: quella dei preti pedofili è una tragedia tremenda e ingiustificabile. Ci sono stati preti criminali, e vescovi gravemente negligenti. Benedetto XVI ci ha mostrato come affrontare questa piaga, senza alcun negazionismo. Ma il film «Mea Maxima Culpa» non è un reportage obiettivo dalla parte delle vittime. Mira al bersaglio grosso, alla Chiesa. Si apre con l’ex-benedettino Sipe che afferma che metà dei preti è infedele al celibato – sarebbe interessante sapere da dove trae questi dati – e che il sistema del celibato «produce e protegge i pedofili».
Un’affermazione cui potrei replicare ricordando che ci sono più pedofili fra i maestri di scuola americani e fra alcuni gruppi di pastori protestanti, che non hanno il celibato, che tra i preti. Ma mi piace rispondere con parole del cardinale Bergoglio, oggi Papa Francesco, nel suo libro-intervista «Il gesuita»: «Se c’è un prete pedofilo è perché porta in sé la perversione prima di essere ordinato. E sopprimere il celibato non curerebbe tale perversione. O la si ha o non la si ha».
E il film si conclude con la saga dell’avvocato Anderson, una figura davvero sgradevole quando assapora i «fiumi di denaro» che la Chiesa ancora nasconde e che spera evidentemente di veder confluire nelle sue capaci tasche, il quale ha cercato di coinvolgere nelle cause statunitensi Benedetto XVI e la Santa Sede, facendosi peraltro dare torto dai tribunali americani. Ma questo è avvenuto – spiega Geoffrey Robertson, presentato semplicemente come «avvocato specializzato in diritti umani», senza precisare che è anche un infaticabile propagandista dell’ateismo – perché il Papa è protetto dall’essere il capo di uno Stato, il Vaticano.
La Chiesa acquistò uno Stato, spiega Robertson, a causa di un patto fra Benito Mussolini (1883-1945) – il film commenta con la musica di «Giovinezza» e facendo vedere un’immagine del Duce insieme ad Adolf Hitler (1889-1945), che non c’entra nulla ma evoca sempre emozioni forti – e Pio XI (1857-1939). Quest’ultimo era un sostenitore acritico del fascismo, spiega Robertson – che non deve avere mai sentito parlare dell’enciclica del 1931 «Non abbiamo bisogno» –: «la Chiesa sostenne il fascismo e in cambio fu creato un suo Stato, il Vaticano».
Qualcuno spieghi a Robertson un po’ di storia: lo Stato della Chiesa si forma fra il VI e il IX secolo, un po’ prima di Mussolini. Ma Robertson, da bravo inglese, ha trovato la prova definitiva che il Vaticano non è un vero Stato: «non c’è una squadra di calcio». Non è vero neanche questo: esistono per i dipendenti dei dicasteri vaticani un campionato vaticano di calcio, una coppa e perfino una supercoppa tra chi ha vinto rispettivamente la coppa e il campionato – tornei da non confondersi con la «Clericus Cup», cui partecipano seminaristi dei collegi romani che non sono però cittadini vaticani. Forse la prossima finale della supercoppa vaticana potrebbe essere arbitrata da Robertson. Come altri che si esibiscono nel film «Mea Maxima Culpa», si ha infatti l’impressione che capisca più di sport che di religione.