Mattarella, il "resistenzialista"
Nel discorso del presidente Mattarella per la festa del 25 aprile ci sono almeno due passaggi discutibili, il primo dei quali da rifiutare e il secondo quantomeno da precisare. In ogni caso si è dimostrato un campione dell'ideologia della resistenza.
Nel discorso del presidente Mattarella per la festa del 25 aprile ci sono almeno due passaggi discutibili, il primo dei quali da rifiutare e il secondo quantomeno da precisare.
Quello da rifiutare è che sul tema della resistenza “la storia non si riscrive”, come perentoriamente affermato dal Presidente. A parte la ovvia constatazione che la storia sempre si riscrive (altrimenti a cosa servirebbero gli storici?), nel caso specifico della resistenza o della “guerra civile italiana” potremmo dire che la storia aspetta di essere riscritta, nonostante lodevoli tentativi su questa linea siano già stati fatti.
Non so se esista la parola “resistenzialismo” nel senso dell’ideologia della resistenza, ma se non c’è possiamo coniarla noi. Il divieto di Mattarella a riscrivere la storia mi sembra proprio un esempio di resistenzialismo. Percorrendo questa strada non si farà mai del 25 aprile un giorno di unità nazionale, ammesso che le giornate commemorative del passato, qualsiasi esso sia, possano ottenere questo scopo. Dico anche di più: non solo la storia della resistenza va riscritta ma anche altri capitoli della storia nazionale, come per esempio il risorgimento.
La storia della resistenza, come continua ad affermare tra i tanti Giampaolo Pansa, va riscritta perché finora non è stata scritta bene a causa del resistenzialismo, cavalcato soprattutto dagli intellettuali legati al Partito Comunista Italiano. Da lì è emersa la vulgata di cui anche Mattarella, purtroppo, si fa fedele seguace. Uno dei punti centrali di questa versione ideologica e popolare della resistenza è il concetto del fascismo come “male assoluto” che Augusto Del Noce coraggiosamente mise bene in chiaro.
Dato che il Partito Comunista voleva acquisire una patente di democraticità, si inventò lo spirito del Comitato di Liberazione Nazionale, ossia della collaborazione tra tutte le forze democratiche contro il fascismo “male assoluto”. Con ciò fece dimenticare che quel partito era totalitario e lo inserì tra i padri della costituzione democratica, in omaggio al programma di Salerno di Togliatti e alla rivoluzione consuntiva di Gramsci. Da quel momento il comunismo, nemmeno quello sovietico, non rappresentò più un male, perché solo il fascismo lo era. Gli intellettuali, i libri di storia – anche dopo De Felice e fino a noi – e la vulgata del partigiano buono a priori non trovarono ostacoli. Il “sangue dei vinti” non emerse mai nei libri di storia adoperati a scuola, del “triangolo della morte” o dei sacerdoti uccisi si evitò di parlare.
L’offesa di essere un “fascista” colpì tutti coloro che non erano allineati con l’egemonia culturale della sinistra che ben presto fu fatta coincidere col costituzionalismo. Gino Strada dice oggi che Salvini è fascista. Le femministe radicali dicono che combattere l’utero in affitto è fascismo e che loro ai fascisti non “la vogliono dare”. Agli immigrati si chiede di liberarci dai fascisti, ossia da quanti vogliono dare una regola alle immmigrazioni. I pacifici manifestanti al Congresso mondiale delle famiglie di Verona erano considerati e come tali apostrofati nei cartelloni della contromanifestazione pro-gender. Alla cerimonia del 25 aprile dove abito io, la presidente locale dell’Associazione partigiani (ormai pressoché priva di partigiani per motivi anagrafici) ha detto che anche oggi c’è un fascismo da combattere nella "deriva populista”, espressione con cui oggi si indicano precise forze politiche.
Nel divieto a riscrivere la storia del presidente della Repubblica è contenuto il perfetto allineamento a questa ideologia “resistenzialista”, che è ancora dura a morire e che continua a vivere di slogan interessati ma che prima o poi morirà.
Il secondo punto del discorso di Mattarella da chiarire è che “non si deve mai barattare la libertà con l’ordine”. La frase è molto equivoca e sposa in pieno un concetto di libertà illuminista ma non realista né cattolica. La libertà richiede un ordine finalistico che la preceda e che la distingua dall’arbitrio. La società politica deve rispettare un ordine indipendente dalle maggioranze, un ordine morale e, quindi, giuridico, sul quale fondare il diritto e la legge, i doveri prima che i diritti. Un ordine indisponibile, nel rispetto del quale la libertà è libertà e non licenza, i diritti sono diritti e non desideri.
Forse il Presidente si riferiva all’idea contrattualistica della politica: gli uomini sono liberi ma deboli e indifesi, quindi rinunciano alla loro libertà per avere protezione e ordine. Questo, egli dice, non si deve fare. Ma allora si deve mantenere una libertà come arbitrio e licenza? Il Presidente dimentica che l’ordine non nasce da un contratto con la reciproca limitazione delle libertà, l’ordine c’è già nella natura degli uomini e nelle loro relazioni e quest’ordine riempie la libertà di contenuti, la limita con dei fini che non è essa a darsi perché fondare la libertà sulla libertà stessa significa non fondarla.